Usa: Trump, un presidente tra preoccupazioni e speranze
Sono trascorsi solo sei mesi, ma l’era Obama sembra molto lontana. Il 20 gennaio, giurando sulla scalinata di Capitol Hill con la mano sinistra sulla Bibbia di Abraham Lincoln, Donald Trump diventava il 45° presidente degli Stati Uniti d’America. Il sentimento allora diffuso era un misto di preoccupazione e speranza. Preoccupazione che il nuovo inquilino della Casa Bianca non fosse all’altezza dell’ufficio. Speranza che il ruolo, le responsabilità e la squadra di governo potessero trasformare un candidato pittoresco in un buon presidente. Era già successo in passato. Oggi a sei mesi di distanza, nonostante il buon andamento dell’economia, la preoccupazione è aumentata e le speranze si sono affievolite.
L’economia vola: merito della Trumpnomics?
L’economia statunitense va bene. Prodotto interno lordo e occupazione crescono. Il trend positivo era già iniziato con Obama, ma negli ultimi sei mesi il grado di fiducia è migliorato e la Borsa è in periodo ‘toro’ dall’8 novembre, il giorno delle elezioni. Per essere pienamente credibile il boom dovrà durare qualche anno, ma lo slogan trumpiano Make America Great Again non sembra più così velleitario.
Decisiva sarà la capacità del presidente di realizzare la promessa di riforma del sistema fiscale con un significativo taglio delle tasse sui redditi individuali e sui profitti aziendali. Da una parte ciò sarebbe di ulteriore stimolo alla crescita, dall’altra potrebbe incidere negativamente sul già elevato debito pubblico.
Politica estera al centro
Nel corso della campagna elettorale Trump aveva promesso di concentrarsi soprattutto sui problemi interni (America first) mettendo in secondo piano la politica estera. In questi primi sei mesi tuttavia le questioni internazionali sono state al centro dell’agenda del presidente e le sue posizioni spesso altalenanti e a volte contraddittorie.
È stata completamente ribaltata, almeno per ora, la politica di Obama sul cambiamento climatico. Così come le alleanze strategiche in Medio Oriente, con il riavvicinamento all’Arabia Saudita e il raffreddamento dei rapporti con l’Iran.
Lasciano perplessi anche il comportamento schizofrenico verso Cina e Russia e le eccessive tensioni con l’Europa, in particolare con la Germania. E’ forte il dubbio che Trump stia affrontando delicate questioni di politica estera con un po’ di leggerezza. La gestione della difficile situazione nord-coreana potrebbe essere un importante banco di prova in questo senso.
I flop su sanità e immigrazione
In politica interna le posizioni del presidente su immigrazione e sanità sono controverse e rischiose. Sulla sanità Trump ha subito una cocente sconfitta. Nonostante le promesse fatte in campagna elettorale, ha infatti dovuto rinunciare alla riforma che avrebbe dovuto sostituire Obamacare, per evitare la bocciatura al Congresso dove avrebbero votato contro anche deputati moderati e conservatori. Un duro colpo alla credibilità della Casa Bianca e della leadership del partito repubblicano.
Anche il decreto presidenziale sull’immigrazione ha prodotto tensioni e danni d’immagine. Appena insediato Trump ha avuto su questo tema uno scontro durissimo con il ministro ad interim della Giustizia Sally Yates, rimuovendola dall’incarico. Da quel momento si è innescato un pericoloso confronto tra presidente e sistema giudiziario, tutt’ora in corso. Ma il vero danno è per l’immagine di un Paese la cui grandezza economica, sociale e culturale deriva anche dalla capacità storica di attrarre braccia e cervelli di ogni provenienza. Nell’economia globale e della conoscenza, il nuovo clima di ostilità verso gli immigrati potrebbe costare caro agli Stati Uniti d’America.
Conflittualità e conflitti di interesse
Un serio problema è l’elevato grado di conflittualità di Trump. Continua il braccio di ferro con i media, con durissimi attacchi a Cnn, Washington Post e New York Times. Le tensioni non mancano anche con istituzioni come Congresso e Corte Suprema e con importanti figure dell’Amministrazione. Il Russiagate ha portato alle dimissioni del consigliere per la Sicurezza Nazionale Michael Flynn, alla minaccia di dimissioni del ministro della Giustizia Jeff Sessions e all’incredibile licenziamento del capo dell’Fbi James Comey. E potrebbe essere solo l’inizio.
Eccessivo anche il ruolo di amici e familiari, con seri rischi di conflitto d’interesse. La nomina del genero Jared Kushner a senior advisor è stata criticata. L’immagine della figlia Ivanka che occupa il posto del padre al tavolo del G20 ad Amburgo sedendosi tra Theresa May e Xi Jinping ha suscitato perplessità e ironie. Il coinvolgimento diretto della famiglia, accettabile in campagna elettorale, è quanto meno inopportuno all’interno dell’Amministrazione.
Il candidato permanente
Il problema è che Donald Trump continua a comportarsi come se fosse ancora in campagna elettorale. E non ha saputo correggere alcuni eccessi, perdonabili (forse) al candidato ma inappropriati per il presidente. Come l’utilizzo continuo e un po’ disinvolto di twitter per comunicare il proprio pensiero. Un’altra anomalia è che il presidente non abbia ancora nominato gli ambasciatori in molti Paesi (quello per l’Italia è stato annunciato solo qualche giorno fa, quello per la Russia oggi).
Un segnale che tradisce il desiderio di gestire gli affari internazionali in prima persona e di preferire la strategia del deal diretto all’azione diplomatica. Non è un caso che un suo libro di successo sia The Art of the Deal. Si aggiunga che, a oltre otto mesi dalla vittoria elettorale, è ancora in corso il Thank you tour che impegna il presidente in lunghi e faticosi viaggi negli Stati che l’hanno votato piuttosto che nello studio dei dossier caldi.
Conclusioni
Nonostante l’andamento positivo dell’economia, i primi sei mesi di Trump sono stati ricchi di scelte contraddittorie e discutibili, sia in politica estera che in politica interna. Tuttavia i tempi sono prematuri per una critica seria. Più preoccupanti sono i numerosi segnali che rivelano come Trump fatichi a spogliarsi dei panni del candidato per vestire quelli istituzionali di presidente. Tanto da far sorgere il sospetto che si tratti di una precisa strategia: fare il candidato permanente, fino alle prossime elezioni.