Iraq: sconfitto l’Isis, i rischi restano
Il 29 giugno le truppe lealiste e le forze speciali della Golden Division hanno ripreso il controllo di ciò che resta della moschea di al-Nouri, nella città vecchia di Mosul, luogo carico di significati simbolici, dove esattamente tre anni fa venne annunciata la nascita dello Stato Islamico e Abu-Bakr al-Baghdadi apparve in pubblico per la prima volta. Subito dopo la riconquista delle rovine, il primo ministro iracheno, Haider al-Abadi, si è affrettato a proclamare la fine di Daesh, seguito a stretto giro dal portavoce dell’esercito nazionale, il generale Yahya Rosool. E il 9 luglio lo stesso premier ha celebrato, a Mosul, il completamento della liberazione della città.
Senza nemico, un Paese più diviso
E’ altamente probabile che il sedicente Stato islamico, l’Isis, o Daesh, in difficoltà dal punto di vista finanziario, ormai privo di molti tra i più grandi centri abitati che era riuscito a conquistare e con crescenti difficoltà a reclutare nuovi adepti, cesserà a breve di esistere così come l’abbiamo sinora conosciuto. Costretto ad abbandonare il progetto del califfato, è probabile che esso ricorra al modus operandi delle origini, assumendo fattezze più frammentarie e clandestine, con lo scopo di destabilizzare il Paese ed ostacolare l’emergere di una governance stabile.
Lo Stato islamico, costituendo una vera e propria minaccia esistenziale per il Paese, ha sinora agito da collante tra i diversi protagonisti della scena irachena, favorendone la convivenza e l’unione di intenti. Il rischio ora è che si ripeta lo schema del 2003, quando gli americani consegnarono il Paese alla maggioranza sciita ed a 10 anni di terrore, prima di Al-Qaida e poi dell’Isis. Con 6/7 milioni di profughi sul suolo iracheno, a cui si sommano il dissesto economico e sociale in cui versa il Paese e le divisioni religiose e settarie che ancora ne minano l’unità politica, ci sono tutti gli elementi perché l’Iraq precipiti di nuovo nel baratro, anche perché il governo di Baghdad non pare al momento provvisto di una strategia per evitare che la cacciata dello Stato islamico da Mosul inneschi una lotta senza quartiere tra le diverse comunità del Paese per il controllo del territorio.
Tra sciiti e sunniti, deriva settaria
Lo Stato Islamico, è bene ricordarlo, lungi dal rappresentare un fenomeno alieno al contesto politico/sociale della terra dei due fiumi, è piuttosto il frutto di ferite profonde della società irachena. Se ne sono accorti gli americani dopo il 2003, quando hanno visto i loro sforzi per la ricostruzione del Paese frustrati dai disordini causati dall’azione di Al-Qaida in Iraq (Aqi), sotto la guida di Zarqawi. Il risentimento verso il governo centrale di Baghdad degli abitanti del triangolo sunnita, il cui vertice Tikrit era stato sino a pochi mesi prima il feudo di Saddam e si era rifiutato di partecipare al processo costituente, è stato fondamentale per tenere sotto scacco le forze statunitensi sino al 2007, quando, grazie al fondamentale contributo del movimento sahawa al-Anbar (Anbar Awakening), Ramadi è tornata sotto il controllo delle forze governative.
Tuttavia, chi sperava che il ruolo fondamentale delle tribù sunnite nello scacciare la minaccia jihadista potesse dare vita ad un nuovo corso delle relazioni tra sunniti e sciiti nel Paese ha dovuto presto ricredersi. Non appena le truppe americane hanno lasciato l’Iraq nel 2011, il governo centrale, guidato da al-Maliki, ha cominciato ad adottare una linea sempre più esplicitamente settaria ed anti-sunnita, culminata con l’arresto del ministro delle finanze, Rafi al-Issawi, nativo di Anbar e uno dei leader della comunità sunnita. I sunniti di al-Anbar hanno risposto con insurrezioni sparse, sfociate talvolta in veri e propri scontri con l’esercito lealista. In questo contesto, l’Isis, che aveva ormai preso il posto di Al-Qaida, ha trovato terreno fertile per la sua resurrezione, facendo leva sul risentimento della comunità sunnita che, accecata dall’odio per il governo centrale sciita, non ha compiuto alcuno sforzo per bloccare l’avanzata dello Stato Islamico.
Giocando sui contrasti religiosi e tribali
Il processo di liberazione dei territori dall’Isis, cominciato nel 2014, ha visto le comunità sunnite, accusate di complicità con lo Stato islamico, spesso vittime delle rappresaglie violente delle milizie sciite filo-Iraniane. L’Isis, attraverso attacchi e attentati contro bersagli sciiti, ha sovente tentato di provocare tali brutali vendette sciite, che alienavano ulteriormente gli sciiti e aumentavano la legittimità degli jihadisti all’interno della comunità.
Il ritorno alla clandestinità potrebbe incentivare l’Isis ad aumentare il numero di tali attentati: eventuali attacchi ai santuari sciiti di Najaf e Karbala avrebbero conseguenze destabilizzanti per il Paese, come già dimostrato dall’ondata di rappresaglie sciite contro la comunità sunnita sollevata dall’ esplosione della moschea sciita di al-Askari ad opera degli uomini di al-Zarqawi nel 2006.
Evitare che la liberazione di Mosul si tramuti nell’ennesima occasione di rivincita da parte degli sciiti contro la minoranza sunnita è di vitale importanza per la stabilità e l’unità del Paese. Tuttavia, le politiche inclusive del traballante premier al-Abadi trovano oppositori in seno alla stessa componente sciita. Anche qui, l’uscita di scena del nemico comune, l’Isis, potrebbe avere effetti destabilizzanti, favorendo il ritorno in scena di al-Maliki, che fa leva sul desiderio di vendetta degli sciiti per riprendersi lo scettro del potere.
Sebbene la presa di Mosul costituisca un passo in avanti importante e necessario per liberare l’Iraq da una delle più efferate organizzazioni terroristiche di tutti i tempi, essa deve essere accompagnata da un processo di riconciliazione nazionale che dia voce alle diverse anime del Paese e che, ove necessario, garantisca ampi spazi di autonomia alle diverse comunità. Il pericolo è che tale vittoria, come troppe volte nella storia irachena, sia il preludio per una nuova stagione di disordini, risentimenti ed instabilità, un’altra tempesta perfetta e un’altra occasione per l’Isis (o chi per lui) di provare a riprendersi il Paese.