Cinesi d’Italia: Milano e Prato, confronto fuorviante
Il primo a contrapporre le modalità con cui la convivenza tra cinesi e italiani si declina nei contesti d’Italia dove i cittadini della Repubblica popolare sono più numerosi – Milano e Prato – è stato probabilmente il giornalista Dario Di Vico in un suo articolo per il Corriere della Sera nell’ottobre dello scorso anno. In quell’articolo, Di Vico tracciava i lineamenti generali di un’ipotesi stimolante[1]: se Prato rappresenta la realtà complessa e controversa dell’imprenditoria cinese immigrata nei distretti manifatturieri italiani, Milano si propone invece come la vetrina del dinamismo imprenditoriale cinese nel piccolo commercio urbano e perfino nel campo socio-politico e culturale. La minoranza cinese in queste due città porrebbe dunque sfide e opportunità diverse al governo del territorio e alle politiche dell’integrazione.
Di Vico concludeva la sua argomentazione con una domanda e una sorta di monito: “L’Italia riuscirà a trovare una sintesi tra i problemi di Prato — e di altri territori zeppi di Pmi come il Nordest — e le ambizioni di Milano? Per ora evidentemente no, ma il consiglio (non richiesto) è di non sottovalutare cosa avviene in provincia. La pancia del Paese, sulla Cina, non la pensa come i cosmopoliti”. Le cose stanno davvero in questi termini? Esistono realmente due modelli diversi di convivenza, di integrazione socio-economica e culturale cui tanto gli amministratori locali quanto i decisori politici a livello nazionale possono scegliere di ispirarsi a seconda delle specificità del proprio territorio?
Il modello Prato
Tutto inizia con il cosiddetto “modello Prato”, teorizzato da Roberto Maroni nel 2010, quando era ministro dell’Interno, per sanare il cosiddetto “distretto parallelo” cinese del pronto moda della città toscana, allora considerato emblematico del “problema cinese” nazionale[2]. Di Prato, tradizionale roccaforte della sinistra, appena espugnata dal centrodestra grazie a una campagna che metteva all’indice il distretto cinese del pronto moda, si volle fare il simbolo di una risposta energica all’illegalità diffusa nel distretto. Con un mix di interventi di contrasto all’irregolarità e di governance del sistema produttivo, volti a offrire alle imprese cinesi sinergie di filiera in grado di garantire uno sviluppo economico che non penalizzasse le imprese italiane, si sarebbe puntato a una convivenza fondata nel rispetto delle norme e in una maggiore integrazione funzionale tra le aziende del territorio. Furono chiuse decine di aziende cinesi e fermati dozzine di titolari e operai, ma a sette anni di distanza quest’approccio incentrato sulla repressione è tutto quel che resta delle auspicate “sinergie produttive” a Prato.
Oggi, nella città toscana, tre quarti delle imprese manifatturiere – e poco meno del 95% di quelle che si occupano della confezione di articoli di abbigliamento – hanno titolare cinese: il pronto moda cinese sviluppatosi a partire dagli anni Duemila ha nettamente soppiantato la manifattura tessile tradizionale. Ma questo distretto pratese-cinese ultimamente non sembra passarsela troppo bene. La premessa stessa della nascita e della crescita di questo tipo di produzione è la sua capacità di garantire a piccoli imprenditori immigrati margini risicatissimi di profitto in un settore produttivo che, a rigor di logica, non può più esprimere alcuna reale competitività rispetto alla concorrenza internazionale, che convoglia ormai buona parte del pronto moda verso i canali di vendita della grande distribuzione (i soliti Zara, H&M, ecc.).
Dal manifatturiero ai servizi
Si specula molto sull’elevato turnover di queste imprese, che sarebbe motivato essenzialmente dall’evasione fiscale. Ma gli imprenditori in questione spiegano la cosa in termini diversi: questo è un settore ultra-competitivo, dove le aziende si rubano gli operai l’un l’altra, offrendo condizioni di paga migliori pur di stare a galla. Chi può, appena possibile cambia settore, subaffitta o chiude la fabbrica per aprire un bar, un ristorante, un negozio…
Oggi che l’immigrazione dalla Cina è in costante declino manca il nuovo apporto di forza lavoro disposta a vivere e lavorare come chi li ha preceduti dieci o venti anni fa. Il rapporto di cambio yuan/euro è sempre meno vantaggioso. I controlli costanti non fanno che accelerare il declino di un’economia di nicchia che nasce come strategia di sussistenza e poi gode di una vita strutturalmente breve: quando vengono meno le condizioni che ne hanno consentito lo sviluppo, in genere in seno al corpo morente di un distretto manifatturiero in crisi da decenni, ne prolunga l’agonia per qualche tempo e poi si estingue insieme ad esso. Questo è quanto è avvenuto in altri contesti italiani, dove il manifatturiero è stato il settore trainante dell’emigrazione cinese fino agli anni Duemila, per poi cedere il posto ai servizi. E perfino nel settore dei servizi, le imprese cinesi generalmente si inseriscono in comparti moribondi, a bassissima redditività, cui regalano vita nuova solo quando riescono a intercettare (e in qualche caso perfino a creare) nuovi mercati.
Stessi valori di fondo e lavoro instancabile
Pertanto parlare di modelli diversi è fuorviante: il processo con cui l’imprenditoria immigrata cinese si è adattata all’economia italiana è fondamentalmente coerente, si basa ovunque sulle medesime aspirazioni di fondo e sugli stessi valori di frugalità, compressione dei consumi non essenziali, lavoro indefesso, costruzione di capitale sociale attraverso la costruzione e manutenzione di reti di supporto parentali e amicali. Quello che può cambiare di contesto in contesto è invece il modo in cui la società, l’economia e la politica locale decidono di interagire con tale processo.
Sta alla lungimiranza e alla sensibilità di chi amministra tali territori comprendere come sviluppare insieme pragmatiche della convivenza che funzionino per tutte le parti in causa. Di questo tipo di pragmatiche le nostre città, come pure quel che resta dei nostri distretti industriali, hanno urgente bisogno. Perché il loro tema di fondo non è come risolvere questo o quest’altro “problema etnico”, quanto piuttosto come rifondare un patto civico che permetta a tali territori di pensare i propri problemi e le proprie sfide come responsabilità ed opportunità comuni.
Articolo pubblicato su OrizzonteCina, rivista online sulla Cina contemporanea a cura di Torino World Affairs Institute e Istituto Affari Internazionali.
[1] Vedi anche: Dario Di Vico, “Il patto di Prato con i ‘nemici’ cinesi”, Corriere della Sera, 25 gennaio 2010; vedi anche l’editoriale non firmato: “Il «modello Prato» contro contraffazione e irregolarità sul lavoro”, Il Giornale delle PMI, 24 novembre 2016.
[2] Toni e temi che si ritrovano ad esempio nel reportage del 2008 di Silvia Pieraccini, L’assedio cinese. Il distretto “parallelo” del pronto moda di Prato, Il Sole 24 Ore, dedicato alla situazione di Prato, realizzato con la collaborazione dell’Unione Industriale Pratese e ristampato nel 2010 con un sottotitolo nuovo: “il distretto senza regole degli abiti low cost di Prato”. Nello stesso anno Edoardo Nesi, allora assessore provinciale alla cultura e allo sviluppo economico, vinse il premio Strega con il romanzo-memoir Storia della mia gente, in cui si riverberano le ansie di un’intera generazione di piccoli e medi imprenditori.