Cina-Myanmar: un nuovo corso dal sapore feudale
Il presidente cinese Xi Jinping ha avviato una nuova strategia per il Myanmar. Grazie all’assenza statunitense dopo la vittoria di Donald Trump, la Cina sta investendo in numerose infrastrutture nel Paese e sta portando avanti una politica di concertazione con i gruppi ribelli nel nord del Myanmar, sfruttando sia i presunti legami etnici sia i solidi rapporti creati con i dissidenti negli scorsi decenni.
Il rapporto tra la Repubblica popolare e il Myanmar è da sempre determinante, per molti fattori. Innanzitutto geografici: la Cina e il Paese del sud-est asiatico condividono più di duemila chilometri di frontiera e Naypyidaw è per Pechino il solo possibile corridoio sull’Oceano Indiano, aggirando lo stretto di Malacca, e una via d’accesso privilegiata per la regione. Nello scorso decennio, la Cina ha di fatto garantito la sopravvivenza del regime militare birmano durante il periodo delle sanzioni occidentali, con un flusso costante di valuta straniera in cambio di gas, petrolio, pietre preziose e legname.
La modificazione del paesaggio nel nord del Myanmar a causa della deforestazione, come evidenziato dallo storico Thant Myint-U, sta creando una nuova via di comunicazione tra i due Paesi che determinerà uno scenario inedito. Il territorio che divide Cina e India, i due Paesi più popolosi del mondo, diventerà per la prima volta interamente percorribile.
I fratelli minori di Pechino
Nel giugno 2015, appena cinque mesi prima delle elezioni birmane, Aung San Suu Kyi si recò in Cina per incontrare il presidente Xi Jinping. Pechino si assicurò la tutela degli interessi economici cinesi e il premio Nobel per la Pace evitò qualsiasi riferimento ad argomenti scomodi per la Cina, anticipando l’approccio pragmatico che ha contraddistinto i primi anni del suo governo de facto. La relazione tra i due Paesi è descritta dal frequente uso della parola birmana pauk-phaw, tradotta in cinese con baobo, che può significare sia fratello che cugino. Il termine è stato soprattutto usato nell’accezione di “fratello minore” a dimostrare la dipendenza birmana dalla Cina, che ha sempre considerato il Myanmar uno Stato vassallo.
Il nuovo corso politico in Myanmar ha inaugurato un’inedita strategia cinese nel Paese. Pechino e Naypyidaw hanno trovato una rapida intesa sul delicato tema dei diritti umani. La Cina ha bloccato una dichiarazione delle Nazioni Unite, proposta dagli Stati Uniti, sulla persecuzione birmana dei Rohingya. La stampa occidentale ha dedicato grande attenzione alla politica nei confronti della minoranza di religione musulmana in Myanmar, mentre il Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi – nel frattempo divenuta ministro degli Esteri – veniva accusata di permettere un vero e proprio genocidio nei confronti dei Rohingya.
Conflitti etnici e protagonismo cinese
La posizione di Pechino, da sempre incentrata sulla percezione delle critiche in tema di diritti umani come una interferenza negli affari interni del Paese, è assolutamente in linea con quella del governo birmano. Il ruolo di Pechino come mediatore per i conflitti etnici nel nord del Paese è cruciale: sia i Kokang sia gli Wa hanno ricevuto negli scorsi anni un intenso supporto militare, economico e logistico dalla Cina. Entrambi i gruppi rivendicano una presunta appartenenza etnica e linguistica alla Cina.
Le due necessità prioritarie del progetto politico di Aung San Suu Kyi sono la ricerca di una convivenza con le strutture di potere che hanno governato il Myanmar negli ultimi decenni e quella di portare a termine il processo di unificazione del Paese.
Il passaggio di potere e la coesistenza con la Tatmadaw (l’esercito birmano) è stato gestito in maniera ottimale dal nuovo esecutivo, mentre la sovranità del Myanmar in molte aree resta debole. In alcuni territori, i gruppi ribelli gestiscono completamente l’amministrazione sia politica sia economica.
Gli Wa dispongono di un proprio esercito, equipaggiato con armamenti fabbricati in apposite industrie belliche nel territorio e usano esclusivamente valuta cinese per le transazioni monetarie. I Kachin posso contare su 10.000 soldati che controllano il confine sino-birmano. L’apporto cinese nella pacificazione dei gruppi etnici si sta dimostrando indispensabile e un eventuale successo nella trattativa con i ribelli dovrà necessariamente passare per un ruolo sempre maggiore di Pechino.
Tensioni al confine e risorse energetiche
L’interesse di Pechino per la sicurezza del Myanmar è anche legato a esigenze geo-strategiche. Nel Rakhine, a ovest, è principalmente connesso alla volontà di scongiurare disordini e proteggere le condutture cinesi che trasportano petrolio e gas dal Golfo del Bengala alla Cina meridionale, ma anche alla prospettiva del ruolo che l’area ricoprirà nell’ambizioso progetto della Belt and Road Initiative, la nuova Via della Seta. Nelle zone in mano ai gruppi ribelli, invece, l’azione cinese è tesa a evitare pericolosi focolai vicino al confine ma soprattutto per mantenere il flusso di legname e risorse energetiche.
Pechino non ha mai abbandonato l’idea di riprendere la costruzione della diga di Myitsone, una controversa infrastruttura idrica che fu bloccata dalla stessa giunta militare birmana nel 2011. L’attuale governo di Naypyidaw, orfano dell’appoggio di Washington, potrebbe trovarsi di fronte alla possibilità di cedere alle pressioni di Pechino per tentare di portare a termine il processo di pacificazione di quella che è stata definita “la più lunga guerra civile ancora in corso”.