Rohingya: etnia dimenticata fra Myanmar e Bangladesh
Tra le popolazioni senza Stato, ridotte dalle contingenze storiche alla condizione di profughi, i Rohingya sono quelli che, a livello di opinione pubblica, hanno sempre fatto parlare meno di sé. Nonostante le sopraffazioni patite da questo popolo del continente asiatico abbiano radici profonde nella storia del Myanmar, solo negli ultimi anni l’escalation di violenza di cui è vittima ha riportato all’attenzione generale la tragica situazione dei Rohingya.
Distanti dal resto della popolazione birmana sotto il profilo etnico e religioso, i Rohingya hanno sempre abitato, pur con qualche riserva al riguardo da parte dello Stato centrale, nella regione amministrativa del Rakhine, al confine con il Bangladesh.
Le affinità elettive con il paese del Bengala vanno ben oltre la mera identità religiosa (entrambe le popolazioni sono musulmane), arrivando fino alla similarità etnica (al punto che taluni ritengono il Bangladesh la loro vera terra d’origine).
La questione delle origini dei Rohingya è più che un semplice interesse etnografico, poiché la minoranza non viene tutelata – e neanche considerata – né dall’ordinamento del Myanmar né da quello del Bangladesh. Se il primo, infatti, non riconosce loro lo status di cittadini, il secondo (nel quale sono stanziati Rohingya a vario titolo, con stime intorno al mezzo milione) non ne garantisce i diritti fondamentali.
Un’etnia dimenticata
Sin dalla fine della colonizzazione e dall’indipendenza dell’allora Birmania dalla Gran Bretagna, lo Stato asiatico non mai ha posto i Rohingya nell’elenco delle etnie ufficialmente riconosciute. La loro situazione si è aggravata ulteriormente sotto la successiva dittatura militare di Ne Win, che ne ha addirittura negato l’esistenza.
Il mancato riconoscimento dello status giuridico di cittadini ha implicato per questa popolazione una serie di restrizioni e di abusi: dalla limitazione di movimento fino al controllo coercitivo delle nascite. Per fuggire a questa terribile condizione, molti Rohingya hanno cercato salvezza nel vicino Bangladesh, dove sono sorti campi profughi le cui condizioni non sono in linea con gli standard minimi internazionali.
Inoltre, la maggior parte di coloro che superano il confine bengalese non viene regolarmente registrata: ciò rende non solo ancora più difficile stimarne il numero, ma anche garantirne i diritti umani fondamentali. In alcuni casi, i tentativi di fuga si sono rivolti verso la Tailandia, da dove sono stati respinti con il beneplacito del governo.
Intervento Onu e crisi umanitaria
In questo difficile contesto, l’azione dell’Onu, presente con l’inviato speciale Yanghee Lee, non risulta sufficientemente incisiva, nonostante i frequenti report ufficiali evidenzino gli estremi per iniziare un procedimento per crimini contro l’umanità.
In particolare, il secondo decennio del Duemila si è aperto con una serie di scontri tra la popolazione Rohingya e quella birmana, che ben presto hanno raggiunto picchi di violenza tali da costringere il governo del Myanmar a dichiarare lo stato d’emergenza e chiedere l’intervento dell’esercito.
Negli ultimi sei mesi, la situazione sembra essere ulteriormente precipitata a seguito di alcuni attacchi contro la polizia di frontiera che sono stati attribuiti ai Rohingya. Questo ha provocato un’ulteriore stretta da parte del governo e un maggiore accanimento dell’esercito e della polizia nei confronti della minoranza musulmana.
La crisi umanitaria è acuita dalla chiusura della zona da parte del governo, ufficialmente per ragioni di sicurezza e di ripristino di ordine pubblico. Di conseguenza, le agenzie umanitarie sono impossibilitate a recarsi sul posto per valutare la situazione. I profughi che riescono a raggiungere i campi bengalesi raccontano di stupri, massacri, case incendiate e altri orrori ai media e alle organizzazioni non governative che si sono stanziate in Bangladesh nel tentativo di sopperire alla mancanza di informazioni di prima mano.
Appello all’azione
Il vortice di accuse sulla responsabilità del Myanmar ha visto coinvolta anche Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace nel 1991 e attuale ministro degli Esteri (nonché leader di fatto del Paese), il cui silenzio sulla vicenda è stato ritenuto criminoso da molti protagonisti della scena politica internazionale (fra cui l’ex premier Romano Prodi e l’ex ministro degli Esteri Emma Bonino).
Lo scorso dicembre, in una lettera aperta al Consiglio di sicurezza dell’Onu, Muhammad Yunus, il campione del microcredito bengalese Nobel per la Pace nel 2006, ha chiesto l’apertura di una discussione ufficiale in seno al consesso del palazzo di Vetro perché si eviti che il fallimento dell’intervento in Rwanda possa ripetersi anche in Myanmar, a causa dell’incertezza della comunità internazionale.
La situazione oggi sembra non mostrare margini di miglioramento, e questo potrebbe lasciare ampio spazio ad una certa retorica di radicalismo islamico, che troverebbe terreno fertile in un popolo che non ha bisogno di appellarsi ad una narrativa vittimistica per sentirsi escluso e vessato tanto dalla propria comunità locale quanto da quella internazionale. L’appello a interessarsi alla situazione dei Rohingya non è un semplice richiamo ai diritti umani, ma al buon senso che la storia non sembra in grado di trasmetterci.