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Asia

Hong Kong: la preferita di Pechino sul trono

6 Apr 2017 - Serena Console - Serena Console

Pechino dorme sonni tranquilli da quando, a fine marzo, la filocinese Carrie Lam Cheng Yuet-ngor è stata eletta nuova leader di Hong Kong. Grazie al sostegno del Partito comunista cinese, Lam – prima chief executive donna della Regione amministrativa speciale – ha ottenuto 777 voti dal comitato elettorale (su 1.163 dichiarati validi), sconfiggendo il principale sfidante John TsangChun-wan che, tuttavia, gode di maggiore popolarità tra gli hongkonghesi.

La Cam afferrerà il timone della “ribelle” Hong Kong il prossimo 1° luglio, nel giorno del ventesimo anniversario del ritorno dell’ex colonia britannica alla Cina. E in quella data, sono già in programma le proteste dei leader della rivoluzione degli ombrelli del 2014.

Un voto a metà
L’attuale sistema di voto è regolamentato dalla Hong Kong Basic Law, la carta costituzionale formata sulla base dei punti sanciti dalla Dichiarazione sino-britannica del 1984, che nel 1997 ha regolamentato il ritorno dell’ex colonia sotto la giurisdizione di Pechino.

L’amministrazione della città è affidata a chi riceve la maggioranza dei voti del Comitato elettorale, a sua volta formato da esponenti della vita sociale, civile, politica, economica, agricola e culturale di Hong Kong: su circa 3 milioni e 800 mila aventi diritto, appena 1.194 membri votano direttamente la massima dirigenza.

La composizione del collegio elettorale appare però non proporzionale: gli elettori che rappresentano il settore agricolo e la pesca, per esempio, hanno 60 seggi (nonostante siano appena lo 0,1% della forza economica di Hong Kong); gli esponenti del mondo finanziario ed assicurativo, invece, totalizzano solo 47 posizioni.

Non sorprende se la natura del Comitato elettorale è stata più volte – ed è tuttora – motivo di protesta delle diverse frange politiche, con quella indipendentista e filodemocratica in testa.

Suffragio universale al palo
Dal ritrasferimento della sovranità nel 1997 (e fino al 2047), l’ex colonia britannica è amministrata dalla Cina attraverso la formula “un Paese, due sistemi”, secondo cui Hong Kong gode di un alto grado di autonomia e mantiene il proprio presidio militare sul territorio, mentre il governo centrale non interferisce nelle politiche interne della città.

Le prospettive di cambiamento del sistema elettorale erano divenute più limpide sul finire del 2007, a seguito della decisione del Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo cinese che prevedeva l’elezione diretta del chief executive di Hong Kong a partire dal 2017, così come il suffragio universale per le votazioni dei membri del Legislative Council, il Parlamento dell’ex colonia.

L’articolato percorso democratico ha però fatto fatica ad imporsi per via di un contrordine arrivato da Pechino il 31 agosto 2014, quando il governo cinese ha pubblicato un white paper dal messaggio chiaro. Hong Kong, si leggeva nel documento, non ha completa giurisdizione sul territorio, ma è obbligata a seguire le direttive del governo centrale; e, soprattutto, il chief executive, anche se eletto a suffragio universale, deve ricevere il via libera dal Partito comunista cinese. Si trattava comunque di un’evoluzione rispetto allo schema attualmente in vigore, e risalente ai tempi del dominio coloniale britannico.

La pubblicazione del testo ufficiale ha però animato il sentimento di rivalsa degli hongkonghesi, e la risposta non si è fatta attendere. Fra settembre e dicembre 2014, le strade di Hong Kong sono state occupate dai manifestanti del movimento degli ombrelli, che hanno protestato in nome della democrazia e del rispetto del principio di non ingerenza cinese nell’amministrazione della città.

Fu proprio in quei 79 giorni di malcontento militante che Carrie Lam, allora chief secretary dell’amministrazione in carica, cercò di gettare le basi per un dialogo con i manifestanti, sempre più diffidenti verso Pechino e l’allora leader di Hong Kong CY Leung.

I disordini e gli scontri durante la rivoluzione degli ombrelli hanno di conseguenza intensificato la pressione dell’establishment cinese su Hong Kong, e gli elettori hanno visto svanire la speranza dell’istituzione di un suffragio universale.

Le sfide per la nuova leader
Durante l’intensa campagna elettorale, combattuta tra palinsesti televisivi ed arterie cittadine, Carrie Lam non ha mai ottenuto il consenso popolare (conquistato dall’antagonista e filodemocratico John Tsang), ma ha tuttavia goduto dell’appoggio della dirigenza cinese. Secondo indiscrezioni rilasciate ai media locali dai membri del Parlamento, il China Liaison Office (organo del Partito comunista cinese con sede a Hong Kong) avrebbe effettuato numerose chiamate a sostegno della candidata filo-Pechino.

Alle critiche per l’atteggiamento antidemocratico della Cina è giunto il commento lapidario del Paese del Dragone: le elezioni si sono svolte in un clima corretto, chiaro ed aperto, riflettendo le scelte di tutto il corpo elettorale.

Cattolica come 600mila hongkonghesi, Lam, conosciuto il responso delle urne, si è impegnata a sostenere le giovani generazioni in cerca di lavoro e ad attivare finanziamenti in innovazione, tecnologia, ricerca e sviluppo, cui si aggiungerebbe un piano economico per raffreddare la speculazione immobiliare.

Così, la preferita di Pechino tenta di nascondere l’ormai ampia forbice di diseguaglianza sociale ed economica, cercando di guadagnare i favori delle giovani generazioni, zoccolo duro dell’odierna società hongkonghese. L’opinione pubblica di Hong Kong è ormai spaccata fra giovani, che covano mire separatiste dalla Cina ravvivate dalla rivoluzione degli ombrelli, e anziani, che vivono ancora nella memoria dei privilegi del boom economico di vent’anni fa, dopo il ritorno sotto Pechino.

Carrie Lam dovrà redigere un piano concreto per garantire il reale rispetto della formula “un Paese, due sistemi” se vuole evitare di subire gli effetti del bassissimo consenso popolare dei Millenians, che si preparano a manifestazioni di dissenso proprio il giorno della cerimonia di insediamento presieduta dal presidente cinese Xi Jinping.