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Primo turno presidenziali

Francia: l’Europa “En Marche”? E l’Italia…

24 Apr 2017 - Riccardo Perissich - Riccardo Perissich

Salvo sempre possibili incidenti di percorso, il 7 maggio Emmanuel Macron sarà eletto presidente della Repubblica francese. Da questa campagna elettorale, giustamente definita storica, si possono trarre una serie d’indicazioni importanti per l’Europa e l’Italia.

La prima è che le famigerate élites possono battere i populisti misurandosi con i problemi che ne alimentano il consenso, ma affrontandoli a viso aperto e senza rincorrerli sul loro terreno. La seconda è che si è probabilmente avviata una profonda ricomposizione del quadro politico, a sinistra ma non solo, i cui effetti si faranno sentire ben oltre la Francia. La terza è che il confronto per il secondo turno si giocherà sul fronte “nazionalismo-apertura al mondo”; in altri termini principalmente sull’Europa e sull’euro.

La candidata dell’estrema destra ha scelto questo terreno, spostando l’accento dalla sicurezza e l’ostilità all’immigrazione verso le questioni sociali, nella speranza di rompere l’isolamento e ottenere il consenso di ceti popolari ostili alla globalizzazione. È stato un errore strategico: i tradizionali elettori di sinistra sono ancora in maggioranza fedeli ai valori democratici e quelli di destra, anche se insoddisfatti del funzionamento dell’Ue, non vogliono abbandonare l’euro. Il risultato è stato che ha prevalso il candidato più europeista fra tutti quelli presenti. Con l’elezione francese e dopo quella olandese, la minacciosa marea populista che ha invaso l’Occidente negli ultimi tempi ha forse cominciato a regredire.

In Germania, grado d’incertezza inferiore
Le elezioni previste in settembre in Germania presentano un grado d’incertezza inferiore. Avranno certo un effetto sul piano interno, ma non muteranno di molto la politica europea del Paese. Dopo una lunga fase d’immobilismo, l’Europa sarà quindi in grado di ripartire, ma bisogna valutarne realisticamente le prospettive. La ripresa del processo d’integrazione dovrà riguardare vari aspetti, come l’immigrazione e la sicurezza, ma sarà centrata sulla governance dell’euro-zona. Sarà però condizionata da una doppia isteresi dovuta alla difficoltà di rimettere in moto processi a lungo arrugginiti.

La svolta rappresentata da Macron avrà bisogno di tempo per materializzarsi sia nell’applicazione del programma di riforme, sia per l’emancipazione dal tradizionale e sempre radicato sovranismo francese; molto dipenderà dal risultato delle prossime elezioni legislative e dalla possibilità di riunire una maggioranza presidenziale sufficientemente solida. Inoltre la sfiducia reciproca e i pregiudizi accumulati tra Francia e Germania non si dissiperanno facilmente, anche perché negli ultimi anni sono cresciute anche in Germania resistenze verso una maggiore integrazione.

Da Macron lezioni per l’Italia
Molto dipenderà dall’effettiva capacita di Macron di attuare il programma di riforme annunciato e dalle proposte concrete che presenterà a Berlino e agli altri partner. Quali lezioni per l’Italia? Un po’ di lucidità dovrebbe suggerire che sono molto diverse da quelle che sembra trarne Matteo Renzi.

Con la Francia che esce dallo stallo e la Spagna che continua la sua traiettoria positiva, non ha più nessun senso parlare di frattura Nord/Sud. Per prima cosa dovremmo convincerci che esiste ormai uno specifico problema italiano, politico ed economico. Ne consegue che nulla potremo ottenere senza la garanzia di una stabilità politica e della ripresa del processo di riforme interne.

In secondo luogo, l’Italia fa bene a mantenere la sua bussola federalista. Tuttavia la ripresa del processo d’integrazione non dipende da un grande rivolgimento del modello istituzionale. Chi continua a sostenere questa ipotesi ottiene solo il risultato di denigrare ulteriormente l’Europa che c’è a beneficio esclusivo dell’euroscetticismo dei populisti. Non ha dunque senso accarezzare fantasie palingenetiche come l’elezione diretta di un presidente, o la convocazione di un’assemblea costituente sul modello di quella americana di Filadelfia.

Il funzionalismo, cioè l’idea che le istituzioni si adattano alla soluzione dei problemi e non viceversa è connaturato alla politica. Gli stessi ex coloni americani fecero Filadelfia per risolvere un problema concreto: la fragilità della struttura confederale di fronte alle ingerenze rapaci delle grandi potenze europee. Lo fecero creando inizialmente un minimo di centralizzazione; poi ci vollero 33 emendamenti e una guerra civile per arrivare gradualmente alle istituzioni federali che conosciamo.

Tutti concordano che ci vuole più legittimità e capacità d’azione politica nell’Ue. Tuttavia il termine “unione politica” così spesso declamato in Italia evoca l’araba fenice di mozartiana memoria: “che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa”. Perché la discussione possa divenire concreta, bisognerebbe chiarire almeno due cose: una larga disponibilità a consentire importanti condivisioni di sovranità e la possibilità di trovare una sintesi convincente fra la concezione tedesca di “governo delle regole” (esecutivo limitato e Parlamento forte) e quella francese di “governo del Principe” (esecutivo forte con grande potere discrezionale). Gli stessi interrogativi si pongono anche per un “governo economico” dell’euro-zona, ipotesi più limitata e realistica che Macron ha adombrato nel suo programma.

Sognare la fine dell’austerità
Il terzo errore sarebbe di credere che il nuovo contesto potrà finalmente segnare “la fine dell’austerità”. Prima di tutto, perché l’Italia non ne è mai stata vittima e il nostro grave ritardo nella ripresa economica e occupazionale è prevalentemente dovuto a fattori domestici. Contrariamente alla vulgata prevalente, nel relativo immobilismo che ha caratterizzato il dibattito europeo, l’Italia ha potuto beneficiare largamente della supplenza della Bce nel compensare i vuoti della politica e di una larghissima flessibilità nella gestione dei conti pubblici concessa dalla Commissione (gli abominevoli euroburocrati).

Questa situazione è malsana e non può durare. Da un lato genera crescente insofferenza in Germania e in altri Paesi e contribuisce a diminuire la credibilità della Commissione. Dall’altro, non ha contribuito a risolvere i problemi italiani e forse ha addirittura contribuito al rilassamento della pressione per le riforme. Peggio, l’abuso dello scudo europeo è stato accompagnato da un continuo stillicidio di attacchi a Bruxelles che hanno finito per screditare la stessa idea di Europa agli occhi dell’opinione pubblica.

Sia la supplenza della Bce, sia la flessibilità sono però destinate a diminuire. È quindi indispensabile che l’Italia partecipi con autorevolezza a un nuovo dibattito che dovrebbe condurre a un sistema più strutturato di governance dell’euro-zona, probabilmente a partire di una troppo ritardata discussione del rapporto dei “5 presidenti”; quel documento, arricchito da altre proposte fra cui forse anche quella di un ministro del Tesoro dell’area euro, resta comunque una base molto utile. Dobbiamo però essere coscienti che il punto d’arrivo sarà forse un sistema più efficiente e orientato alla crescita, ma anche più intransigente nel controllo dell’applicazione delle regole.

Il quarto errore è credere che la nostra condizione di padre fondatore e di terza economia dell’area euro ci conceda un diritto di veto e ci renda in un certo senso “indispensabili”. Siamo certamente molto importanti e possiamo essere interlocutori ascoltati, ma ci stiamo avvicinando a un momento in cui il ventaglio delle soluzioni possibili è destinato a restringersi.

La comprensibile soddisfazione per la probabile svolta in Francia e la conseguente fine dell’immobilismo, dovrà quindi essere accompagnata da una seria riflessione sulle priorità della nostra politica sia interna sia europea. Immobili, possiamo sognare uno spazio con scelte illimitate; nel momento in cui riprende il movimento, la libertà della fantasia cede il passo alle opzioni più limitate offerte dalla realtà.