Italia, l’accordo con la Libia non decolla
Per l’Italia, il 2017 si è aperto con la sfida della gestione dei flussi dei migranti. Proprio il 30 dicembre, una circolare ministeriale siglata dal neoministro dell’Interno Marco Minniti e dal capo della polizia Franco Gabrielli ha sollecitato l’impellenza di dare “massimo impulso all’attività di rintraccio dei cittadini dei Paesi terzi in posizione irregolare”.
Stando alle anticipazioni diffuse dal Viminale, il corollario operativo del documento dovrebbe implicare la riapertura in ogni regione di Centri di identificazione ed espulsione, Cie, il potenziamento degli accordi con i Paesi d’origine per la riammissione dei migranti respinti e il rafforzamento del controllo delle frontiere esterne.
Il flop della politica dei rimpatri
Piano non proprio avveniristico, si dirà, e che sembra riproporre, seppur con alcuni correttivi in via di definizione, quanto già sperimentato con scarso successo negli ultimi venti anni.
Caso lampante, in tal senso è il controverso rilancio dei Cie. Un sistema bollato da più parti come inefficace e descritto da un rapporto di Medici per i Diritti Umani come “congenitamente incapace di garantire il rispetto della dignità e dei diritti fondamentali della persona”.
Sono state proprio le violazioni e le malversazioni riscontrate in gran parte delle strutture a far sì che, progressivamente, dai 15 centri aperti a partire dal 1999 si arrivasse ai 4 rimasti attivi nell’ultimo anno.
Un’agonia decretata anche dall’ultimo rapporto stilato dalla Commissione diritti Umani del Senato che ha evidenziato come il modello Cie abbia disatteso persino il suo principale obiettivo: il rimpatrio dei migranti irregolari.
Nel 2015 – evidenzia la commissione – su 34.107 migranti sottoposti a un provvedimento di espulsione dal territorio italiano, 15.979 (circa il 46%) sono stati effettivamente allontanati, mentre 18.128 non hanno mai lasciato il Paese. Un buco nell’acqua che si spiega alla luce della scarsa applicabilità dei pochi accordi bilaterali di riammissione stipulati dall’Italia con i paesi di origine.
I costi esosi, la necessità del riconoscimento dell’autorità consolare del Paese di provenienza e i limiti per l’uso coercitivo delle misure di rimpatrio posti dalla direttiva ‘rimpatri’, hanno reso, nei fatti, la politica sui rimpatri un flop.
Criticità già espresse dalla roadmap diffusa dal Viminale nel 2015 e che spiegano, in parte, la svolta muscolare del ministero dell’Interno, che ha promesso di presentare in parlamento un Disegno di Legge su immigrazione e sicurezza entro la fine del mese.
Nella ridda di anticipazioni e smentite circolate negli ultimi giorni, alcuni elementi sembrano tuttavia definire la linea futura dell’esecutivo sull’immigrazione. Innanzitutto dialogo interistituzionale. Come evidenziato dal recente vertice interministeriale su sicurezza, immigrazione e Libia, indetto dal Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, la priorità politica è un’azione multilivello che si snodi tanto a livello interno quanto a livello di politica estera.
Il ritorno dei Cie e la nascita dei Centri di coordinamento sulla radicalizzazione
Sul fronte politica interna, l’appuntamento decisivo è quello della conferenza Stato-Regioni fissata per il 19 gennaio. Il rilancio del modello Cie ha messo sul piede di guerra molti governatori, la cui collaborazione è decisiva sia per far decollare le ambizioni di accoglienza diffusa storicamente caldeggiate dal Viminale, sia per garantire una base operativa ai venti Centri di coordinamento sulla radicalizzazione che secondo i piani del governo dovrebbero insediarsi a livello regionale per monitorare la radicalizzazione e l’estremismo jihadista.
Una rete territoriale, che secondo la proposta della Commissione di studio sul fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista risponderebbe ad una centrale operativa insediata permanentemente a Palazzo Chigi.
Tema, quello del dialogo con i territori, che torna anche nella strategia identificata dal Consiglio per le relazioni con l’islam italiano, un organo insediato al Viminale per rilanciare il dialogo con la comunità musulmana e far sì che moschee e ministri diventino presidi contro la radicalizzazione soprattutto nelle periferie urbane, area critica su cui stanno convergendo anche le attività della Commissione di inchiesta sulle periferie insediata alla Camera dei Deputati lo scorso agosto.
La missione di Minniti a Tripoli
Se, al netto delle riottosità degli enti locali, il piano del governo a livello interno sembra piuttosto definito, il fronte dell’azione esterna pare invece essere più claudicante e soprattutto più imprevedibile. Soprattutto perché a oggi il buco nero dell’immigrazione verso l’Italia resta la Libia.
Stato fallito uno e trino che vede il generale Khalifa Haftar spadroneggiare in Cirenaica, mentre il presidente incaricato dall’Onu Fayez Al Sarraj tenta di controllare la Tripolitania, cercando di arginare l’espansione delle organizzazioni islamiste che da mesi infiltrano la regione del Fezzan.
In un quadro di questo tipo la recente missione di Minniti a Tripoli per definire bilateralmente un’intesa con il governo di unità nazionale di Al-Sarraj volta a stabilizzare il Paese e contenere le migrazioni irregolari e il traffico di esseri umani conferma, per l’ennesima volta, la solitudine dell’Italia nella gestione dei flussi migratori.
Persino il golpe tentato soltanto un giorno dopo la riapertura dell’ambasciata italiana a Tripoli da un manipolo di miliziani fedeli al vecchio governo islamista di al-Ghawil non ha provocato alcuna reazione congiunta da parte dei Paesi europei.
Un’inerzia resa più pesante dalle poche frasi di rito espresse dal Commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos, che, in visita alla Farnesina, si è limitato ad elogiare l’accordo siglato da Minniti con al-Sarraj, senza fare alcun riferimento alle prospettive politiche e operative del piano per Bruxelles.
Così mentre dalla Libia, l’ex premier al-Ghawil lancia strali contro l’Italia e bolla la riapertura della rappresentanza diplomatica come una occupazione militare, dalla Farnesina il ministro degli esteri Angelino Alfano lascia intendere, tra le righe, che l’essenza della dimensione esterna della politica migratoria nazionale resta sempre la stessa: il solipsismo.
“L’Italia sta lavorando con grande impegno per rafforzare la collaborazione bilaterale sul fronte del controllo dei punti di transito migratorio alla frontiera sud fra Libia e Niger e nel contrasto alla immigrazione illegale e al traffico di essere umani. Quando la Libia sarà in grado di collaborare pienamente su questi temi, ci aspettiamo che l’Unione europea e la comunità Internazionale siano pronte a lanciare programmi di sostegno e iniziative comuni, poiché la partita che si gioca, la giochiamo tutti insieme, nessun Paese escluso”.
Scenario futuribile, quello del gioco di squadra, visto che per ora, se fossero confermate le agenzie che si rincorrono da Bruxelles, il piano italiano per la Libia sembrerebbe essersi concluso con il no di al-Sarraj alla proposta di intesa dell’Italia. Tema intricato su cui dovrebbe riferire già lunedì il ministro degli Esteri di Malta George Vella, il cui governo ha la presidenza di turno dell’Unione europea.