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Oltre il populismo

Tre passi per rendere (di nuovo) grande la politica

19 Dic 2016 - Silvia Merler, Giuseppe Porcaro - Silvia Merler, Giuseppe Porcaro

Nessuno avrebbe mai pensato che eventi come l’elezione di Trump o la Brexit sarebbero potuti accadere. Eppure, nel 2016, sono tutti diventati realtà e ora ne dovremo gestire le conseguenze.

Non solo abbiamo fallito nel predire questi sviluppi, ma non siamo nemmeno riusciti a capire in tempo le ragioni alla radice dello scontento generalizzato e la mobilitazione che ne è derivata. Al massimo, gli analisti si sono limitati a considerare questo nuovo populismo come un fenomeno di nicchia incapace di fare breccia nella maggioranza. Nulla di più sbagliato. Dare la colpa al “populismo” senza riconoscere i limiti della sua critica sarebbe, dunque, quantomeno ipocrita.

Alla luce di tutto ciò, l’obiettivo di questa articolo è quello di tracciare qui un percorso che possa aiutare a ritrovare fiducia nella politica e la democrazia.

Abbattere le casse di risonanza
Si è parlato molto, negli ultimi mesi, della creazione di casse si risonanza. Abbiamo assistito alla moltiplicazione di un dibattito “tra sordi”, nei media, in parlamento, nei forum pubblici, online. Sono sempre più rari gli scambi di idee che non rinforzino a vicenda lo stesso punto di vista e ciò lascia spazio alla formazione di posizioni estremiste.

Le persone scelgono delle corsie informative preferenziali che esacerbano la polarizzazione. Inoltre, la sostituzione dell’interazione personale con quella virtuale favorisce la radicalizzazione del tono del discorso generale. Notizie, dibattiti, social networks sono tutti pensati per omogeneizzare le opinioni espresse, piuttosto che provocare e contestare quelle dell’altra parte.

Per cominciare a demistificare efficacemente le posizioni più estreme attraverso i fatti, bisogna creare degli spazi di discussione comune dove le posizioni opposte possano essere discusse intellettualmente e in maniera seria.

Fatti sul terreno per riconquistare fiducia 
In un clima di cosiddetta post-verità, i “fatti” e le analisi scientifiche sembra contino sempre meno per elettori e rappresentanti politici. In primo luogo, i dati statistici sono uno strumento flessibile: cambiando alcuni parametri o semplicemente la loro visualizzazione si possono raggiungere conclusioni divergenti. Ciò crea confusione e rende le persone scettiche, perché “i dati” e “i fatti” sono percepiti come “fluidi”.

Inoltre, la maniera in cui le analisi sono elaborate e presentate sono spesso poco chiare ai non addetti ai lavori. Per esempio, in economia esiste un’evidente disconnessione tra il quadro macroeconomico e le conseguenze micro. Gli abitanti della rustbelt statunitense o di alcune contee della Gran Bretagna non riescono a capire perché nella propria comunità la disoccupazione aumenti mentre “l’economia” stia andando bene. In modo analogo, singoli elettori fanno fatica a capire quali siano i vantaggi dell’appartenenza all’Unione europea nel momento in cui i processi istituzionali appaiono lontani e oscuri.

Per questo motivo, analisti e ricercatori dovrebbero concentrarsi sulle modalità attraverso le quali dinamiche generali influenzano le esperienze particolari. A tal fine, la geografia può venire in aiuto per mettere al centro dell’azione politica l’impatto sul territorio, che non deve essere più considerato come uno degli effetti collaterali di modelli statistici e astratti.

L’utopia comincia dal basso
Con la fine della guerra fredda, il concetto di ideologia è diventato quasi un tabù. Alla morte dell’ideologia si è sommata quella dell’idealismo. Cosa che è diventata particolarmente chiara dopo la crisi economica del 2008, lasciando spazio alla disillusione generalizzata verso il futuro. Se non si può immaginare un futuro migliore in questi tempi caratterizzati dal cinismo, come ci si può aspettare di costruirne uno?

La proposta è quella di utilizzare l’utopia come uno strumento metodologico. Nell’ambito politico il successo di molti movimenti populisti o neo-nazionalisti deriva da un’attrazione emotiva verso una promessa di un passato idealizzato che non è mai veramente esistito. Per contrastare questa visione, bisogna proiettare di nuovo la politica nel futuro.

L’organizzazione è cruciale per mettere in marcia le idee qui descritte. Una delle convinzioni più sbagliate degli ultimi trent’anni è stata l’idea che i cittadini non avessero avuto più bisogno di organizzazione, poiché i politici avrebbero potuto raggiungerli individualmente.

C’è sicuramente la necessità di nuove forme organizzative. La vecchia maniera di gestire un partito, per esempio, non è più adeguata, ma la sistematica perdita di sostegno pubblico da parte dei corpi intermedi e della società civile ha portato un indebolimento costante dell’iniziativa proveniente dai cittadini.

Il modello che vede i cittadini come consumatori di politica deve essere sostituito con uno schema che veda i cittadini come produttori di politica. Questa cosa è stata ben assimilata dai populisti che l’hanno capita bene e prima degli altri.Questo nuovo modello, dovrebbe diventare una priorità istituzionale, investendo le risorse necessarie per sostenere l’iniziativa civica: reinvestire nelle associazioni, sostenere dei progetti collettivi e dal basso, ma anche un supporto chiaro alla partecipazione politica, cominciando da una più diffusa educazione civica.

Infine, parlando di azione, ci sono delle implicazioni importantissime su come trasformare il processo di ideazione e attuazione delle politiche. Questo processo tende a essere tradizionalmente incrementale, ma spesso i progressi registrati sono così marginali che è difficile per i cittadini di apprezzarli.

Per riguadagnare fiducia, i politici dovrebbero fare dei gesti coraggiosi, non dovrebbe più essere il tempo dei miglioramenti marginali ma quello degli shock positivi. Bisogna mostrare che le istituzioni tradizionali, spesso viste dagli elettori come la cristallizzazione delle elites al potere, sono capaci di essere coraggiose e di fare passi avanti visionari.