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Usa 2016

Obiettivo: il riflusso della marea

22 Nov 2016 - Riccardo Perissich - Riccardo Perissich

Nei prossimi mesi saranno prodotte raffinate analisi del clamoroso voto dell’8 novembre in America; tuttavia, disponiamo già ora di molti dati che ci aiutano a cominciare a capire quali siano i meccanismi che consentono ai populisti di vincere in modo clamoroso e a volte inaspettato.

La politica della post-verità
In primo luogo, lo si era già visto a proposito di Brexit, l’uso sistematico e deliberato della menzogna.Solo le anime candide possono credere che essa sia normalmente assente dalla lotta politica.

Tuttavia il fenomeno cui assistiamo, definito “la politica della post-verità”, comporta un uso non strumentale ma strategico della menzogna; lo scopo, facilitato dal carattere sempre più frammentato e polarizzato dell’informazione, è di indurre quante più persone a credere in un mondo di relativismo assoluto in cui la verità non esiste. L’obiettivo non è di proporre un programma, ma di delegittimare una classe dirigente.

Il populismo non esisterebbe se l’occidente non avesse attraversato una lunga crisi economica, accompagnata da grandi mutamenti sociali, da profonde trasformazioni degli equilibri internazionali e da una rivoluzione tecnologica.

Tutto ciò ha prodotto l’emarginazione di alcuni settori della popolazione e un aumento delle disuguaglianze: fenomeni in parte inevitabili, in parte prodotto di scelte politiche sbagliate. La scommessa che ha portato Trump alla vittoria è consistita nel riuscire ad aggiungere in alcuni Stati chiave queste persone, in buona parte tradizionali elettori democratici, alla massa dei tradizionali elettori repubblicani.

Trump il candidato e Trump il presidente
Se la coalizione di Trump è eterogenea, il programma lo è ancora di più. Ovviamente dovremo aspettare che emerga l’inevitabile differenza fra il candidato e il presidente, ma alcune indicazioni cominciano a delinearsi.

In primo luogo, sembrano confermati i timori di una svolta radicale rispetto a un ormai lungo percorso di evoluzione politica e culturale per l’affermazione dei diritti civili intesi in senso largo; evoluzione consacrata dall’elezione del primo presidente afro-americano. Per quanto riguarda la politica estera, bisognerà capire se saranno confermate, di fronte a una realtà internazionale che rifiuta di lasciarsi semplificare, alcune indicazioni di forte rottura con la tradizione internazionalista che dura dalla fine della seconda guerra mondiale.

Per la politica economica, se si esaminano le indicazioni programmatiche enunciate durante la campagna, sembrano quasi emergere due Trump. Uno “reaganiano”che promette un forte taglio alle imposte, deregolamentazione in campo finanziario e ambientale, aumento delle spese militari e ridimensionamento di “obamacare”.

C’è però anche un Trump “rooseveltiano” che per risollevare la classe media emarginata promette un grande programma d’infrastrutture, il cui finanziamento è peraltro ancora vago. I due Trump sono palesemente incompatibili fra loro perché l’insieme del programma farebbe esplodere un debito pubblico già oltre i livelli di guardia.

Accanto a ciò, c’è la promessa di un radicale freno all’immigrazione e di una decisa svolta protezionista. Non sappiamo fino a dove vorrà spingersi, ma anche l’America dovrà inevitabilmente fare in conti con l’effetto del protezionismo che, per proteggere settori non competitivi, provoca ritorsioni e tarpa le ali alla parte più dinamica dell’economia.

Del resto, la principale minaccia a parte dell’economia tradizionale non viene dalla globalizzazione, ma dalla tecnologia che nessuno riuscirà a fermare. Per il momento, l’unica certezza che abbiamo è che tutto ciò dovrà essere negoziato con un Congresso a maggioranza repubblicana. È quindi legittimo avanzare la previsione che il risultato finale sarà più “Reagan”, forse con più protezionismo, e meno “Roosevelt”, con buona pace di chi aveva votato contro “la candidata di Wall Street”.

Se questa analisi è corretta e tenendo anche conto che alcuni elementi del programma di Trump (per esempio infrastrutture e protezionismo) erano presenti anche in quello dei democratici, è facile indulgere alla tentazione di pensare che una parte degli elettori che gli hanno dato la vittoria,abbiano votato “contro il proprio interesse”.

Chi solleva questo dubbio è immediatamente accusato di elitismo e di arroganza.C’è tuttavia un altro modo di leggere il voto. Contrariamente a una semplificazione diffusa, i democratici non hanno “perso la classe media”. La maggioranza di quelli che hanno redditi medio-bassi, della popolazione urbana e delle minoranze ha votato per la Clinton.Trump è stato portato alla Casa Bianca dall’elettorato bianco di ogni categoria sociale, donne comprese.

L’esperienza concreta di molte di queste persone è quella di mutamenti economici repentini con la conseguente necessità di accettare impieghi meno qualificati, di crescita delle minoranze mentre i propri figli sono confrontati ad aspettative decrescenti, della messa in discussione di tradizioni e di valori religiosi, dell’arrivo massiccio di immigrati.

D’altro canto, in un mondo che può sembrare un universo parallelo, buona parte della classe media urbana cavalca con profitto il progresso tecnologico e combatte battaglie vincenti per la legalizzazione della marijuana e dei matrimoni omosessuali.

Non importa che molti di questi fenomeni abbiano scarso impatto sulla situazione economica di coloro che si sentono emarginati; non importa che le misure promesse da Trump non serviranno a ridurre le disuguaglianze, ma probabilmente contribuiranno ad allargarle.

La rabbia che irrompe nelle urne ha motivazioni identitarie e culturali prima ancora che economiche. L’errore compiuto dai democratici (e non solo da loro) è stato di non aver capito che di fronte a un cambiamento tumultuoso, la forbice del divario culturale si allargava nella società oltre la soglia di pericolo; in questo senso, l’accusa di arroganza rivolta a un’intera classe dirigente è almeno in parte giustificata.

La lunga crisi economica ha fatto il resto. La coalizione democratica che doveva riunire le donne, le minoranze e la classe media urbana si è rivelata difficile da mobilitare, mentre esplodeva la rabbia della coalizione populista. Si è tentati di pensare ai versi di Yeats: “I migliori non hanno convinzioni / mentre i peggiori sono pieni d’intensa passione”.

Europa debole davanti alla sfida ai suoi valori
Quanto precede è solo in parte un’analisi specificamente americana, ma si può largamente applicare anche all’Europa. È in gioco l’intero sistema di valori interni e internazionali su cui si è retto l’occidente dalla fine della seconda guerra mondiale.

Da questo punto di vista, assume un forte significato il gesto con cui a Berlino Obama, forse scoprendo tardivamente l’Europa, ha consegnato simbolicamente ad Angela Merkel la bandiera della difesa dei valori dell’internazionalismo liberale.

Mai come oggi sarebbe necessaria una risposta unitaria, ma l’Europa affronta questa sfida in condizioni di particolare debolezza. La prevedibile fine della lunga stagione dei bassi tassi d’interesse e le minacce protezioniste renderanno ancora più difficile l’uscita dalla crisi, con il rischio di danneggiare particolarmente i paesi più fragili come l’Italia. Analoghe considerazioni si possono fare per la politica estera sul futuro della Nato, i rapporti con la Russia, l’accordo con l’Iran. I rapporti transatlantici resteranno stretti, ma dovranno essere ridefiniti.

Il cammino perché l’Europa possa completare il processo di riforma, affrontare la sfida dell’immigrazione e la necessità di assumere maggiori responsabilità internazionali, sarà arduo e non scontato. C’è però una premessa senza la quale nulla sarà possibile: i moderati di destra e di sinistra devono acquisire la consapevolezza che la fiducia reciproca non potrà essere ristabilita in assenza, almeno nei principali paesi, di governi stabili al riparo dall’ondata populista.

Nella sua storia della seconda guerra mondiale, Churchill intitolò il capitolo che precede Stalingrado “La loro ora più bella”. Il capitolo seguente ha per titolo “Il riflusso della marea”. I prossimi mesi sono pieni di scadenze elettorali in numerosi paesi. Bisogna prepararsi a perderne alcune, ma la nostra Stalingrado sarà probabilmente nel maggio prossimo a Parigi.

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