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Unione europea

L’inutile strappo di Renzi a Bratislava

19 Set 2016 - Riccardo Perissich - Riccardo Perissich

Ci sono casi in cui, quando la situazione è disperata, è difficile dire se non sia preferibile non fare nulla. Per esempio, a cosa serviva il vertice di Bratislava convocato per dare un senso all’Europa post Brexit? Anche un marziano sapeva che nessun governo è oggi pronto a dare a quella domanda una risposta convincente.

La riunione, che si è tenuta non a caso nella capitale della Slovacchia, aveva una sola ragion d’essere: affermare una sia pur fittizia unità a 27 di fronte alla sempre più evidente fronda dei Paesi del gruppo di Visegrad.

Essi vogliono essere rassicurati che non si farà nessuna concessione ai britannici sulla libera circolazione delle persone. D’altro canto, senza apparentemente vedere il paradosso, rifiutano solidarietà sulla crisi dei rifugiati, chiedono “meno Europa” e soprattutto “meno Bruxelles” e accentuano la deriva nazionalista e autoritaria al loro interno. Vista la loro posizione strategica, non è un problema che possiamo prendere alla leggera.

È facile dire che la risposta sta in un’Ue a cerchi concentrici; tuttavia se non sono chiare le caratteristiche del nucleo centrale, l’affermazione resta confinata al dibattito accademico.

I principali Paesi fondatori non sono ancora pronti a rispondere a questa domanda; non perché non siano coscienti che sia necessario, ma perché mancano ancora le basi di un accordo solido e duraturo e nessuno s’impegnerà in una discussione seria alla vigilia di una tornata elettorale che potrebbe cambiare radicalmente il profilo politico dell’Europa. Per il momento i governi sembrano ovunque paralizzati dall’offensiva di movimenti populisti profondamente diversi fra loro, ma accomunati dall’euroscetticismo.

Direttorio di Ventotene precocemente dissolto
In queste condizioni, per quale ragione la Germania, forse meno instabile e più attenta di altri alle questioni geopolitiche, dovrebbe provocare una crisi a oriente senza sapere se a occidente gli interlocutori fra un anno saranno affidabili?

A Bratislava la parola ventisette contava ancora più della parola unità. Era quindi normale che si dissolvessero sia l’effimera formazione mediterranea che si era riunita ad Atene, sia il “direttorio” di Ventotene. Per evitare il contagio del trauma di Brexit, la partita principale per l’Ue si gioca a est e il tema principale è quello degli immigrati più che l’economia.

Non è un caso che la Merkel subito dopo Ventotene si sia precipitata a Varsavia. È sorprendente che Renzi non abbia capito il copione del film al quale stava partecipando, come pure che abbia scoperto a Bratislava che mancava la parola Africa in un testo sicuramente discusso da parecchi giorni.

Il dibattito si sta avvitando, anche all’interno di molti Paesi, su due idee che rischiano di condurre allo stallo. La prima è che la prospettiva di un’Europa più sovranazionale è definitivamente tramontata.

La seconda, speculare alla prima, è che la ragione della crisi risiede invece nel fatto che si è abbandonata quella prospettiva in favore di un’Europa intergovernativa. Come se le cessioni o condivisioni di sovranità fossero un fine in sé e non valessero in funzione delle cose da fare insieme.

Costretti a navigare a vista
Facendo uno strano amalgama fra Monnet e Spinelli, si dimentica infatti che l’Ue non è una federazione; tutti i poteri attribuiti alle istituzioni derivano dai governi e nulla di concreto può succedere se non c’è un accordo fra di essi sugli obiettivi e sui principi che devono guidare le politiche comuni. Il potere d’iniziativa della Commissione può essere a volte risolutivo, ma solo se esiste già una predisposizione all’accordo almeno fra i governi principali.

Molto dipende anche dall’autorevolezza della Commissione: c’è stata quella di Delors e quella di Barroso. Ciò è tanto più vero quando, come ora, i problemi da affrontare toccano da vicino il cuore della sovranità nazionale e in un certo senso navighiamo in terra incognita.

Da questo punto di vista, l’Ue è ancora strutturalmente intergovernativa. È anche vero, come ripetono in molti, che l’opinione pubblica, sottoposta da anni a una sistematica denigrazione di “Bruxelles”, ha un’istintiva riluttanza a trasferire nuovi poteri alle istituzioni; se leggiamo attentamente i sondaggi, vediamo però che la disaffezione verso l’Ue è dovuta a una moltitudine di ragioni fra cui primeggia la mancanza di risultati concreti delle decisioni che vengono annunciate con gran fracasso.

La storia degli ultimi sessant’anni ci dice peraltro che nessun accordo può produrre effetti duraturi se la sua gestione non è affidata a istituzioni comuni. La crisi attuale, con il contrasto fra l’efficacia dell’azione della Banca centrale europea e le insufficienze dell’azione dei governi lo dimostra in modo drammatico.

Il continuo riferimento alla difficoltà politica di trasferire poteri al centro, è quasi sempre un argomento pretestuoso che maschera l’incapacità di mettersi d’accordo su cosa fare, come e con chi.

La distinzione fra metodo intergovernativo e sovranazionale è quindi buona per dibattiti accademici, ma nella realtà le due cose sono complementari. Il primo è la premessa perché il secondo abbia senso; il secondo è la condizione perché i risultati auspicati siano raggiunti.

Altrettanto fallace è la diffusa convinzione che l’Ue abbia conosciuto un’epoca d’oro della sovranazionalità; basterebbero i nomi di De Gaulle e Thatcher per ricordare che i governi sono sempre stati riluttanti ad attribuire poteri alle istituzioni e l’Europa si è mossa fra i due approcci in un continuo movimento pendolare.

Per il momento dobbiamo accettare di essere obbligati a navigare a vista, nella speranza che gli avvenimenti ce ne diano la possibilità.

D’altro canto è vero, come ha ricordato Juncker, che l’Ue vive una crisi esistenziale e ha bisogno di una nuova visione convincente; non è più sufficiente difenderla con gli argomenti del secolo scorso, o con la paura della catastrofe che ci aspetterebbe in caso di dissoluzione. Né si può costruire consenso su una nuova visione denigrando l’Europa che esiste o con lo stucchevole riferimento alla tecnocrazia.

Bisogno italiano per la coppia franco tedesca
Quando, dopo il ciclo elettorale e nella speranza che non abbia provocato disastri irreparabili, sarà possibile riprendere un dialogo impegnativo, alcune idee dovranno già essere state discusse, di preferenza fuori dal circuito mediatico.

Molte sono già sul tavolo, alcune di esse italiane. Renzi fa bene a difenderle; tuttavia lo strappo di Bratislava non gli sarà utile. Come pure basta una fuggevole occhiata al calendario per capire che sarebbe un errore caricare di eccessive aspettative la celebrazione dei trattati di Roma prevista nella capitale italiana per la prossima primavera. La pazienza pagherà più dell’irruenza.

L’Italia non ha bisogno di farsi avanti a gomitate; tutti sanno che accanto alla sempre indispensabile coppia franco-tedesca c’è bisogno anche di noi.

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