La fine di Dilma
Il primo presidente donna brasiliano è stato costretto a lasciare. Ieri i senatori brasiliani hanno votato rispondendo alla domanda: “Ha commesso l’accusata, la Presidente della Repubblica Dilma Vana Rousseff, i crimini di responsabilità corrispondenti all’ottenimento di prestiti da istituti finanziari controllati dall’Unione e l’apertura di crediti senza autorizzazione da parte del Congresso Nazionale, dei quali è accusata e deve essere condannata alla perdita del suo mandato, restando, di conseguenza, interdetta all’esercizio di qualsiasi carica pubblica per un periodo di otto anni?”.
Nel complesso quesito, approvato con 61 voti a favore e 20 contrari, sono riassunte le ragioni formali che hanno portato all’impeachment dell’ormai ex-presidente del Brasile, Dilma Rousseff.
Prima di spiegare nel merito le accuse, è necessario sottolineare come il processo abbia seguito l’iter previsto dalla Costituzione del 1988. Un procedimento estremamente articolato, durato otto mesi e 17 giorni, con oltre 100 ore di dibattiti tra accusa e difesa, ripetuti interventi della Corte dei Conti e del Supremo tribunale federale (Stf), votato per ben quattro distinte sedute dalla Camera e dal Senato a maggioranze qualificate, e conclusosi con l’allontanamento definitivo della presidente solo dopo un’estenuante seduta-fiume finale durata una settimana, presieduta dal più alto magistrato del paese, il presidente del Stf.
Il tutto trasmesso in diretta nelle case dei brasiliani, nel migliore stile delle telenovelas locali, con tanto di pianti degli avvocati di accusa e difesa. Non si è trattato, quindi, di una rottura democratica, né di un golpe bianco, ma di un processo che ha seguito i dettami della Carta fondamentale, per quanto possa essere stato politicamente traumatico per il Brasile.
Pedaladas fiscais e contabilità creativa
Tra le accuse rivolte alla Rousseff, il primo punto riguarda le cosiddette “pedaladas fiscais”, ovvero il mancato pagamento del governo federale di Brasilia di crediti concessi da diverse banche pubbliche. Una pratica espressamente vietata dall’art 36 della Legge di Responsabilità Fiscale (101/2000), varata proprio per evitare azioni fiscalmente irresponsabili da parte dell’esecutivo, che avrebbe potuto utilizzare le istituzioni finanziarie sotto il suo controllo per aumentare senza limiti la spesa pubblica, dissestando così conti pubblici, devastando la contabilità delle banche statali e generando un’impennata inflattiva.
Gli istituti di credito pubblici, i cui vertici sono nominati direttamente da Brasilia, avevano anticipato ingenti somme per finanziare i programmi sociali varati dall’esecutivo. Una pratica normale nei governi precedenti, i quali avevano rimborsato le banche pochi mesi dopo la concessione degli anticipi. Il governo Rousseff, invece, non lo ha fatto, utilizzando questi crediti come entrate accessorie per oltre 56 miliardi di reais, circa l’1% del Pil. Il tutto senza contabilizzare queste operazioni e truccando così il bilancio federale.
Per ragioni puramente formali, nelle accuse non sono state inserite operazioni analoghe, ma molto più imponenti, portate avanti dal Banco Nacional de Desenvolvimento Econômico e Social (Bndes), la banca pubblica di sviluppo brasiliana, che ha fornito prestiti sussidiati ad aziende “amiche” del governo per un valore superiore a 500 miliardi di reais, oltre il 10% del Pil. Le stesse aziende che negli anni hanno generosamente finanziato le campagne elettorali del Partido dos Trabalhadores (PT) della Rousseff. Benché non presenti tra i capi d’imputazione, i senatori brasiliani, e l’opinione pubblica, ne hanno naturalmente tenuto conto.
La seconda accusa riguarda i decreti di credito supplementare firmati dalla Rousseff senza l’autorizzazione del Congresso. Questi decreti permettevano un aumento della spesa pubblica aggirando i limiti previsti dalla legge di bilancio votata annualmente da Camera e Senato. L’art 167 della Costituzione Federale proibisce chiaramente questo tipo di aumento delle uscite, indicando nella violazione di tale norma una ragione per l’impeachment del capo dello Stato.
Questi due capi d’accusa, sostanzialmente contabilità creativa, possono sembrare poca cosa e non giustificare la perdita di un mandato presidenziale derivante da elezioni libere e democratiche, come quelle realizzatesi nell’ottobre 2014. Ed è esattamente questa la strategia politica che il PT, vincitore di quella tornata, ha fatto sua per propagandare la narrativa del “golpe” in Brasile e all’estero.
Il Brasile di Dilma in crisi
Tuttavia, bisogna considerare il contesto in cui l’impeachment è stato votato. In un paese in profonda crisi economica, con tre anni consecutivi di contrazione del Pil ( arrivato a -3,8% nel 2015 e a -4% previsto nel 2016), un’inflazione che ha sfiorato l’11% e che ha superato il 150% tra i beni alimentari, una disoccupazione passata dal 4,8% all’11,3%, un real svalutatosi da 1,75 a 4 in relazione al dollaro, interi settori economici completamente dissestati da scelte dirigiste sbagliate del governo e il più grande scandalo di corruzione della storia del Brasile: l’operazione “Lava Jato”.
Un’indagine che ha come epicentro il gigante statale petrolifero Petrobras, di cui Dilma è stata per anni presidente del consiglio di amministrazione, e che ha colpito in pieno il PT, accusato di avere saccheggiato la statale per finanziare le proprie campagne elettorali. Elezioni presidenziali incluse.
Lula, padrino da difendere
Dilma ha perso definitivamente l’appoggio dei parlamentari che ancora la sostenevano, o che erano in dubbio su come votare, quando la scorsa primavera ha cercato di nominare ministro l’ex-presidente Luiz Inácio Lula da Silva, suo padrino politico. L’obiettivo, smascherato dalla pubblicazione di intercettazioni telefoniche tra Dilma e Lula, era quello di garantire a quest’ultimo un foro privilegiato ed evitare così che venisse processato dal tribunale ordinario che sta indagando sulla Lava Jato, la mani pulite locale. Un atto che ha indignato i brasiliani, facendo sprofondare la già bassa popolarità della presidente al 9% tra la popolazione.
L’impeachment, di per sé, non è mai un voto puramente tecnico. Essendo il Congresso a giudicare è necessariamente un atto anche politico. Dilma Rousseff, quindi, non ha perso il suo mandato solo per le ragioni giuridiche, ma anche per un contesto di pessima gestione economica, maldestra articolazione politica e scandalosa attuazione personale. Da mesi in Brasile appariva chiaro che il governo Rousseff non fosse più sostenibile.
Il voto del 31 agosto 2016 genererà infiniti scritti, fiumi di parole, intense battaglie retoriche, virulente dispute politiche e non farà sicuramente parte della memoria condivisa del paese. Ma viste le condizioni in cui versa il Brasile, era necessario girare pagina.
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