I rischi per l’Italia se vince il No
Accantoniamo per un momento la non-diplomatica “interferenza” per il sì dell’ambasciatore americano John Philipps o le fosche previsioni dell’agenzia di rating Fitch in caso di vittoria del no. Nessuno tuttavia può davvero negare che in Europa non serpeggi una certa preoccupazione in vista del referendum sulla riforma costituzionale italiana.
Sembrerebbe un argomento di cucina domestica, di interesse per i soli italiani. Ma da alcuni anni, per non dire decenni, i fatti interni di un Paese si riflettono direttamente sui destini dell’intera Unione europea, Ue. Basti vedere l’ansia con cui sono state seguite nel recente passato le elezioni in Grecia o quelle ancora oggi pendenti in Austria.
Per non parlare poi dell’attenzione parossistica sul referendum inglese, che in effetti ha rimesso in gioco l’intera struttura dell’Unione, oggi alle prese con la prima uscita di un proprio membro dal club comune. Vi sono quindi buone ragioni per comprendere il nervosismo dei mercati finanziari sul futuro dell’Italia (e dell’Euro), nonché il fiato sospeso di Bruxelles (e Berlino) sul risultato del voto italiano.
Ma questi timori sono solo una parte, forse la più piccola, di un dibattito italiano poco attento alle ragioni europee e internazionali che giustificano la sostanza di una riforma costituzionale che il governo di Matteo Renzi ha portato a termine attraverso sei letture nel nostro Parlamento.
Un presidente del consiglio più forte in ambito internazionale
Come è noto, alcuni costituzionalisti hanno arricciato, a dire poco, il naso davanti al testo varato dalle camere. Una delle obiezioni, sostenuta perfino dalla minoranza del PD (magari dalla memoria corta), è di un eccessivo accentramento di poteri nelle mani del Presidente del Consiglio. A parte il fatto che anche la proposta di riforma varata dalla bicamerale Berlusconi-D’Alema (1997) sosteneva l’urgente necessità di rafforzare il Premier,vi è una chiara esigenza europea e internazionale a giustificarla.
La nascita e il sempre maggiore ruolo assunto dai Consigli europei all’interno del sistema decisionale dell’Ue impone una presenza continua e attenta dei primi ministri. Con la crisi finanziaria del 2008 e con il conseguente rischio di fare saltare l’Euro, il Consiglio europeo si è riunito con cadenza quasi mensile per diversi anni.
Ma al di là degli aspetti economici, i capi di stato dell’Ue decidono ormai su tutto, dalla lotta al terrorismo alle problematiche relative all’immigrazione. Lasciamo stare la valutazione sull’efficacia o meno di questa forma di “governo” dell’Ue (fra il resto prevista dal trattato di Lisbona), ma è evidente a tutti che il premier nazionale deve essere in grado di dirigere e coordinare tutte le competenze del governo che lo impegnano al tavolo del Consiglio europeo.
Lo stesso discorso vale, in termini più generici, per quanto riguarda la nostra partecipazione nei vari G7 o G20 che siano (di qui le preoccupazioni americane). Quindi accentrare i poteri nella Presidenza del Consiglio è un’esigenza dettata dall’evoluzione istituzionale dell’Ue e da un diffuso “verticismo” multipolare nelle relazioni internazionali.
D’altronde, quella di gestire in prima persona i dossier internazionali è una caratteristica di tutte le principali democrazie europee, dal Cancelliere in Germania al Primo ministro in Inghilterra. Forse, quindi, al di là degli aspetti di equilibrio interno fra diversi ruoli istituzionali, varrebbe la pena dare un’occhiata a quelli che sono gli interessi italiani nel contesto europeo e internazionale.
L’inefficienza del bicameralismo perfetto
A seguire, le obiezioni sulla riforma puntano l’attenzione sui rischi per la democraticità del futuro sistema istituzionale. È un tema un po’ sfuggente, poiché nessuno sembra mettere in dubbio i guasti prodotti dal bicameralismo perfetto, ma molti si attaccano nuovamente allo sbilancio degli equilibri di potere verso il Presidente del Consiglio con la sopravvivenza di una sola camera.
Anche in questo caso agli scettici o bastian contrari va ricordato come nel resto d’Europa laddove esiste il sistema bicamerale si preveda una distinzione di competenze e che nessun rischio alla democrazia si è per ciò palesato.
Al contrario, vale forse la pena valutare come questo farraginoso e ormai antistorico sistema di poteri perfettamente coincidenti di Camera e Senato abbia generato numerose deficienze anche rispetto ai nostri obblighi nei confronti dell’Ue.
Basti pensare ai ritardi cumulati nell’adozione delle direttive comunitarie o alle numerose condanne che quei ritardi hanno fatto subire al nostro Paese, sempre nella lista dei paesi reprobi dell’Ue.
Non si confonda quindi democrazia con inefficienza: quest’ultima semmai è all’origine proprio delle disuguaglianze e del diverso trattamento che i nostri cittadini hanno vissuto rispetto a quelli di altri paesi dell’Ue.
Per un Paese più efficiente vi è quindi estremo bisogno di rivedere l’intera catena di comando fra potere esecutivo e legislativo. I contrappesi, è evidente, devono funzionare, ma questo non vuol dire che ciò deve avvenire a scapito dell’efficienza. In un mondo sempre più competitivo e in un’Unione che ha bisogno di decisioni radicali per potere sopravvivere ai venti dell’antipolitica è necessario chiarire meglio la distinzione di ruoli fra esecutivo e legislativo.
Per troppi anni l’Italia ha vissuto nella confusione e sovrapposizione dei due ruoli, che se avevano qualche senso ai tempi del compromesso storico, con un governo democristiano e con un parlamento affidato alla direzione dei comunisti, oggi il paese necessita di efficienza, autorevolezza e credibilità.
I partner europei sperano in un’Italia più forte
Tutte qualità di cui non solo noi, ma anche i nostri partner europei sentono estremo bisogno: un’Italia più forte è una delle poche speranze per quel che resta del disegno unitario europeo.
Cedere alla malafede di una certa opposizione interna, che prima approva e poi respinge la riforma istituzionale, o allo scetticismo, per quanto rispettabile, di qualche costituzionalista sarebbe deleterio.
La riforma va vista in tutti i suoi aspetti e riflessi, sia interni che internazionali. Ci vuole uno sguardo un po’ più lungo rispetto a un dibattito interno per slogan o per posizioni preconcette. Dire no alla riforma significherebbe negare il nostro interesse europeo e internazionale a giocare un ruolo da grande nazione.
Gianni Bonvicini è vicepresidente vicario dello IAI.
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