Le ragioni di Trump: perché il tycoon va avanti
Nella corsa alla presidenza americana, la convention democratica sembra aver segnato una svolta per Hillary Clinton: partito compattato, vantaggio nella raccolta di donazioni da parte dei sostenitori e progressi nei sondaggi vanno di pari passo con una serie di intoppi per Donald Trump.
L’immagine che danno i media e gli analisti americani appare dunque come assai univoca, descrivendo anche la candidatura di Hillary Clinton come l’unica concepibile, mentre l’erratico Donald Trump sarebbe un fenomeno da dimenticare al più presto. Uno sguardo più attento rivolto alle mobilitazioni in corso, però, fa emergere una serie di cambiamenti in atto, il bisogno di rattoppare il racconto nazionale americano e di rimettere in moto la mobilità sociale, delineando lo scenario di una possibile vittoria di Trump.
America bianca e povera
La candidatura del tycoon traduce il malessere dell’uomo bianco americano con un livello di educazione relativamente bassa. D’altronde, il campo Clinton difende una serie di altre categorie: le donne, i neri, gli ispanici, la comunità lgbt, la Silicon Valley.
Assistiamo quindi a una frattura fra un’America bianca relativamente povera che, di fronte a delle difficoltà economiche e sociali, segue un discorso vago di ripiego nazionalista con slanci xenofobi,e una “United Colors of America” di cui si fanno campioni i democratici, portatori un modello comunitario trasformato, nel quale anche la lingua inglese viene affiancata a un forte elemento ispanico, come bene illustra la presenza nel ticket per la Casa Bianca del candidato vicepresidente Tim Kaine, fluente in spagnolo.
Al di là dell’apprezzamento per l’uso della lingua di Cervantes (o di Garcia Lorca…), l’elemento comunitario e identitario sembra un fattore caratteristico della candidatura della Clinton, che tra l’altro critica il campo Trump per il suo pessimismo e la sua visione di crisi. Detto in sintesi, i democratici difendono il bilancio della presidenza Obama e insistono sull’ulteriore integrazione delle diverse comunità che compongono il tessuto sociale degli Stati Uniti e sulla difesa dei loro diritti in un contesto segnato anche da violenze razziali.
La società secondo Donald
Va tuttavia sottolineato che il campo democratico non riprende la pertinente analisi di cui è stato portatore Bernie Sanders durante le primarie, relativamente alla percezione di un arresto economico e sociale della società americana.
Si tratta di un problema che non è semplicemente riconducibile a questioni di integrazione comunitaria o razziale, ma che richiama una buona vecchia analisi di classi socio-economiche, con alcuni elementi forti: l’aumento del divario fra la parte più ricca del paese e il resto della collettività, ma anche l’inceppamento della mobilità sociale.
Quest’ultimo punto risulta dolente in un paese in cui la possibilità di farcela nell’ambito di una generazione è alla base del sogno collettivo, e rimanda anche al dibattito sui costi e l’accessibilità del sistema universitario.
Non è che Trump dia delle risposte particolarmente convincenti e strutturate a questi problemi. Però persiste nel denunciare, anche in modo ingarbugliato, una serie di problematiche fortemente sentite dalla pancia del paese: quelle di una società con ridotti margini di progresso economico e sociale per alcune fasce, una percezione negativa combinata con l’accento sull’identità bianca, anglosassone e maschile (per non dire maschilista) minacciata dalla diversità della società statunitense.
È ovvio che per molti aspetti questa visione di ripiego rimanda a delle componenti razziste che sono difficilmente digeribili. Ma bisogna ascoltare il senso della protesta economico e sociale espressa dal consenso intorno a Trump, anche per constatare come la candidatura Clinton non dia risposte soddisfacenti a questi appelli.
Al di là delle debolezze strutturali di una nomination democratica ritrita che assomiglia a un riassunto delle puntate di “House of Cards”, va anche osservato che dietro le numerose difficoltà, l’impresentabile Trump riesce comunque ad addomesticare il partito repubblicano. Dopo alcune vicissitudini interne al partito, hanno dato il loro appoggio anche figure istituzionali come lo speaker della Camera Paul Ryan e i senatori John McCain e Kelly Ayotte, placando anche quei repubblicani che non riescono a passare il Rubicone per votare Clinton.
Di fronte a questa navigazione difficile, molti interpretano ogni tribolazione di Trump come un passo falso. Però il tycoon va avanti, e vanno rilevati alcuni elementi importanti: la sua raccolta fondi ha segnato recentemente un progresso netto, con un’impennata di piccoli donatori che dimostra come egli registri maggiori consensi nella parte medio bassa dell’elettorato, mentre Hillary Clinton trionfa nel ricevere finanziamenti da parte di milionari o star dello show business.
Inoltre, Donald Trump ha recentemente annunciato la creazione di un comitato di esperti economici, composto da imprenditori piuttosto solidi ma anche classici (soltanto vecchia economia, poca tecnologia): una mossa che può accrescere la serietà delle sue proposte, ma segna anche una visione conservatrice di un capitalismo relativamente diffidente nei confronti della Silicon Valley.
Tutto questo corrisponde anche a un emergente dibattito all’interno del partito repubblicano, con alcune voci che chiedono una crescita di investimenti pubblici seguendo una visione keynesiana e rimettono in discussione il dogma reaganiano del taglio lineare delle tasse. Questi sostengono che una riduzione generalizzata delle imposte non corrisponda a una crescita dell’insieme della società, non potendo il problema del divario fra fasce alte e basse di redditi essere trattato in questo modo.
Partita aperta per la presidenza
Donald Trump ha sconvolto gli equilibri all’interno del partito repubblicano, e questo lascia anche spazio per delle importanti revisioni intellettuali. Certo, non va visto come il campione di un nuovo pensiero; semmai come il goffo e spesso inquietante interprete di tendenze contraddittorie. Ma si tratta di tendenze di fondo che rappresentano un sostrato solido per la sua candidatura e che ne determinano anche potenti leve di voto.
Se aggiungiamo a quest’insieme di fattori la combinazione fra la pressione mediatica e la danarosa campagna democratica, che provoca un’impressione di perpetua denigrazione nei confronti del candidato repubblicano, osserviamo un Trump bashing che potrebbe avere effetti perversi nelle urne e provocare le adesioni di molti che non si vogliono lasciare imporre una verità da parte dei media e dell’establishment. Il risultato delle elezioni di novembre è, quindi, tutt’altro che scontato.
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