Migration compact, dall’Italia all’Ue
Con la comunicazione al Parlamento europeo del 7 giugno, la Commissione riprende significativamente il titolo di Migration Compact per proporre un patto europeo ad una serie di paesi terzi (Giordania, Libano) affinché continuino ad assistere i migranti che ospitano (o ospiteranno) sul loro territorio o riprendano i migranti già partiti verso l’Europa e da questa rimpatriati.
Nel secondo caso il patto è volto all’Africa nera ed è assortito da un robusto pacchetto finanziario. Il modello è quello del Piano Juncker (Efsi) e analogamente dovrebbe mobilitare risorse europee, nazionali, private, esercitando su queste ultime un effetto di traino.
La Commissione presenta il Compact come una prova di verità con l’elettorato. Il fenomeno migratorio è elevato e di lunga durata, le chiusure nazionali non riescono ad arginarlo, bisogna gestirlo con un’accorta risposta europea.
L’approccio della Commissione resta dentro al quadro della cooperazione. Poco o nulla dice di una politica attiva della difesa, intesa a prevenire i fenomeni bellici o a intervenire quando questi scoppiano, per limitare i danni umani e materiali e l’avvio di nuovi esodi di massa. Pur con le comprensibili cautele, si avvede che solo dispiegando tutta la strumentazione del Trattato in materia di azione esterna ci avviciniamo alla soluzione.
La proposta italiana
Il Migration Compact proposto dall’Italia offre un approccio diverso a un fenomeno – quello dell’immigrazione – che definisce in apertura “senza precedenti” e destinato a durare per decenni a causa delle dinamiche geopolitiche nelle aree prossime all’Europa, e segnatamente in Medio Oriente, Nord Africa, Sahel, Corno d’Africa.
Le turbolenze sono diffuse perché riguardano le zone di guerra (Siria) e le zone di arretratezza economica e sociale quando non ambedue assieme. Il fenomeno è tale da “minacciare i pilastri fondamentali dell’integrazione europea (ad esempio l’integrità della zona Schengen) e la solidarietà fra gli stati membri”.
Le azioni intraprese sulla rotta orientale (Accordo Ue-Turchia) mirano a dare sollievo alle popolazioni che fuggono da condizioni di guerra. I flussi in arrivo attraverso la rotta mediterranea sono composti principalmente da migranti economici: e sono quelli destinati a durare decenni proprio per le origini strutturali dei mali da cui le persone fuggono.
Il fenomeno ha anche e soprattutto un impatto umanitario. Le immagini di persone in fuga e sovente vittime di disastri e deportazioni sono emotivamente forti per il pubblico europeo, che ne prende immediata conoscenza grazie ai mezzi di comunicazioni di massa. La tensione si scarica sulla nostra rete protettiva, sia essa di assistenza che di contrasto, e si fa sempre più alta. Alcuni punti di approdo sono divenuti il simbolo d’Europa, nel bene e nel male.
La chiusura del Brennero e l’apertura del Gottardo
Urge un salto di qualità nella risposta europea. Il salto di qualità va piuttosto diretto verso l’esterno che all’interno. A chiarire il pensiero vale la dichiarazione della Cancelliera tedesca, che icasticamente paventa la fine d’Europa se il Brennero viene chiuso. Il Brennero è un confine simbolo che, come tutti i simboli, vale molto più del traffico che consente (o interdice). Il Brennero è la porta d’ingresso fra Nord e Sud Europa.
Non è probabilmente un caso che la Cancelliera si pronunci in questo modo dopo avere partecipato il primo giugno, assieme ad altri dirigenti europei, all’inaugurazione della galleria svizzera del San Gottardo. La chiusura del Brennero tradisce l’apertura del Gottardo.
Le migrazioni di massa mettono l’Unione di fronte alle sue responsabilità sulla scena internazionale. Il Trattato di Lisbona inserisce la politica estera, di sicurezza e difesa nel capitolo dell’azione esterna, che include pure la cooperazione allo sviluppo, l’aiuto umanitario, le politiche “comunitarie” tradizionali.
L’Unione dovrebbe agire all’esterno sulla base degli stessi principi che animano la sua zione all’interno, in una armonica ancorché poco probabile coerenza di atteggiamento. Poco probabile perché sulla scena internazionale l’Unione si confronta con soggetti a volte refrattari ai principi che essa propugna.
Importa comunque che, con Lisbona, l’Unione si sia dotata della strumentazione astrattamente idonea all’azione esterna. Altro discorso è che dal 2009 non tutta l’azione esterna si è dispiegata con pari velocità ed efficacia. La politica di difesa è rimasta indietro e gli effetti del ritardo sono percepibili proprio nella presente crisi.
L’approccio integrato del Migration Compact
Il Migration Compact propone un approccio integrato che, a semplificare, si può definire come miscela di prevenzione, contrasto, aiuto. Accanto ai progetti d’investimento tramite gli strumenti finanziari a ciò deputati, si pone la cooperazione in materia di sicurezza: gestire le migrazioni controllandole anche alla radice, mediante azioni di Psdc (politica di sicurezza e difesa comune) da proiettare nelle aree di crisi.
Creare opportunità legali ai migranti e insieme varare gli schemi di riallocazione a titolo di compensazione per i paesi di prima linea. Praticare i ritorni e le riammissioni, rivedere i sistemi di asilo, lottare contro i trafficanti di esseri umani.
Il documento si conclude con la proposta di una nuova Guardia europea di frontiera che serva a sviluppare un piano per “joint EU return operations”. Non è detto che il Migration Compact sia condiviso in tutto e per tutto dagli stati membri e dalle istituzioni europee, essendo prevedibili le resistenze di varia natura. Ma occorre smuovere le acque perché si percepisca fino in fondo la portata della sfida che si pone non solo ai paesi di frontiera ma agli assetti delle società europee nel loro insieme.
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