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Terrorismo

Di origine balcanica reclutatori jihadisti italiani

25 Apr 2016 - Mario Arpino - Mario Arpino

Non è la prima volta che, forse perché nato e vissuto in tempi difficili sul confine nordorientale e perché ho dovuto il più occasioni interessarmi di ciò che succede oltre Adriatico, cerco di fermare su quest’area l’attenzione dei lettori.

Un’occasione l’ho colta qualche mese orsono, quando nel Padovano è stato scoperto un nucleo di reclutatori islamici che, proveniente dai Balcani, da tempo agiva indisturbato nel nostro nord-est.

Ora, faccio seguito al bell’articolo di Renata Pepicelli, pubblicato su questa rivista il 22 aprile. Nelle prime battute si legge che “… la maggioranza dei foreign fighterspartiti dall’Italia è di origine balcanica”. Domanda: come mai? Potrebbe quindi essere di qualche interesse cercare di spiegare le origini di questa “filiera”.

Le origini della filiera balcanica
Durante la guerra di Bosnia, Alija Izetbegovic, sindaco di Sarajevo, ci veniva presentato dai media quale personaggio moderato e schivo. Ma altre fonti, meno note, lo ritengono colpevole di doppio gioco: la Bosnia, sotto la sua guida, negli Anni Novanta avrebbe svolto per l’estremismo islamico lo stesso ruolo dell’Afghanistan negli Anni Ottanta, offrendo ai mujaheddin internazionali un campo di addestramento ideale per esercitarsi alla jihad. A lui, andrebbe ascritta la responsabilità di aver importato e sviluppato lo jihadismo nell’Europa balcanica, e oltre.

Anche in quell’area, come ovunque, all’inizio l’Islam si era imposto a fil di spada, ma solo pochi – parte della classe dirigente – erano veri musulmani, importati dall’Anatolia. La conversione delle etnie locali, forzata all’inizio, in seguito ebbe carattere volontario, spesso per convenienza economica o per affrancarsi dalle discriminazioni. Fu lentissima e durò secoli, senza mai raggiungere valori superiori al 40 per cento.

Un’immagine inedita di Alija Izetbegovic
Sotto il regime ateo di Tito questa componente restò in sordina, ma alcuni estremisti, che avevano aderito alle Waffen SS durante l’occupazione e, nel dopoguerra, all’organizzazione egiziana dei Fratelli Musulmani, continuavano a coltivare il sogno di fare di Bosnia e Kosovo il riferimento di tutti i musulmani d’Europa.

Tra questi, figura di rilievo era proprio Izetbegovic che, dopo alterne vicende, nel 1989 riunì i suoi amici islamisti radicali in un partito politico che denominò banalmente Partito di Azione democratica (Sda), evitando l’utilizzo di terminologia religiosa o nazionalista, vietata dalle leggi federali.

Tuttavia, viene allo scoperto con la sua Dichiarazione islamica, quando afferma che lo scopo era quello di contribuire a “creare una comunità musulmana omogenea dal Marocco all’Indonesia”. Cioè la umma, il califfato globale, che è lo stesso obiettivo oggi dichiarato dall’autoproclamato ‘califfo’ al-Baghdadi. Ma la compagine musulmana integralista di Bosnia riuscì sempre a mimetizzarsi, pur soffiando, di nascosto, sul fuoco dell’estremismo.

Le guerre balcaniche del dopo-Tito
Ai tempi della dissoluzione del regime di Tito e della conseguente frammentazione etnico-religiosa e territoriale, gli Usa, seguiti dalla Nato, decidevano di cogliere il momento per distruggere l’ultimo nucleo duro comunista rimasto nell’enclave occidentale europea, il regime di Milosevic.

Stimavano che i musulmani e i croati di Bosnia avrebbero potuto rendersi assai utili, visto che, pur nemici tra loro, odiavano i serbi. E viceversa. Così, come già i mujaheddin in Afghanistan, furono supportati ed armati. Identica cosa fu più tardi con i musulmani kosovari di etnia albanese. Occasione unica per Izetbegovic e per i suoi amici integralisti sauditi ed emiratini, che furono prodighi di finanziamenti, di aiuti e di nuove moschee.

Basta recarsi a Sarajevo e constatare la differenza di sviluppo tra le tre enclavi cittadine. Al primo posto vi è quella musulmana, segue la croata e a distanza, buona ultima, quella serba, ancora la più povera. Se a metà degli Anni Novanta l’integralismo islamico stava già preoccupando gli americani, nei Balcani si chiudeva un occhio, visto che i militanti continuavano a rendersi utili.

Alija Izetbegovic agli onori della cronaca
Fu così che, specie in occasione dell’assedio di Sarajevo e della strage di Srebrenica, indistintamente tutti i bosniaci – i “buoni” e i “cattivi” – passarono decisamente nella categoria delle vittime e ad Alija Izetbegovic si tributarono tutti gli onori. Ricordo, ad esempio, di aver ricevuto dalla presidenza del Consiglio l’incarico di trasportarlo in Italia con un velivolo militare dall’aeroporto di Sarajevo – allora sotto il tiro dei mortai serbi – per consentirgli di lanciare un appello al mondo usando come megafono una seduta del nostro Parlamento.

Finita la guerra, in regime di “dopo Dayton”, i bosniaci integralisti e quelli venuti in loro soccorso dall’estero non furono più oggetto di alcuna attenzione. Anzi, si cercò di farli dimenticare in fretta, sebbene fosse già allora noto – ma tollerato quale costume locale – che i rifugiati tra le montagne ricevessero in premio come “mogli” le vedove dei miliziani uccisi in battaglia. A quel punto, l’Italia nordorientale era già diventata facile obiettivo di emigrazione (1).

(1) Per saperne di più su questi così poco conosciuti vicini si suggeriscono, tra tante altre letture, “Il ponte sulla Drina” di Ivo Andrich e “Jihad nei Balcani”, di J.R. Schindler.