IAI
Impegno contro il Califfato

L’Italia tra Iraq e Libia

21 Dic 2015 - Alessandro Marrone - Alessandro Marrone

Nel discutere su cosa può fare militarmente l’Italia per combattere il sedicente “stato islamico” , Isis, sarebbe utile ricordarsi di cosa già fa il Paese nei teatri di crisi mediorientali, e di come ogni intervento militare – in Iraq, Libia o Siria – debba essere inquadrato in una strategia politico-diplomatica e non ridursi a una mera accettazione di richieste alleate.

Le missioni italiane in Iraq, Libano e Afghanistan
Nel momento in cui la Francia ha chiesto agli alleati europei di contribuire maggiormente alla lotta contro il terrorismo fondamentalista e l’Isis, ha fatto notizia la decisione tedesca di inviare un contingente militare in Mali a sostegno delle operazioni francesi, stante la tradizionale ritrosia di Berlino a partecipare a missioni internazionali con un certo tasso di rischio.

Meno attenzione hanno suscitato le decisioni dell’Italia, prima e dopo gli attentati di Parigi, di confermare, ed in alcuni casi incrementare, una serie di impegni militari significativi, tanto per quantità e qualità dei contingenti dispiegati quanto per i rischi associati alla missione.

Partendo dall’Iraq, al centro dell’attenzione mediatica italiana per la diga di Mosul, attualmente operano circa 530 militari italiani nella missione Prima Parthica, contingente di cui a novembre è stato deciso l’aumento a 750 unità.

Sulla base delle risoluzioni Onu 170/2014 e 2178/2014 e della richiesta ufficiale del governo di Baghdad, la missione, inquadrata nella coalition of the willing a guida Usa addestra le forze di sicurezza irachene e curde, fornendo assistenza, soprattutto aerea, nel contrasto all’Isis.

Rimanendo nei teatri a tiro del “califfato”, dal 2007 l’Italia ha il comando della missione Unifil delle Nazioni Unite in Libano, forte di 11 mila truppe nella delicata posizione tra Israele, Hezbollah e quel che resta della Siria, schierando finora un contingente nazionale di circa 1.100 unità (contro i 62 militari tedeschi, 800 francesi e 600 spagnoli e zero britannici).

In Afghanistan, nell’ambito della missione Nato Resolute Support, l’Italia dispiega circa 830 unità come la Germania (la Gran Bretagna ne impiega 450 e la Francia zero) e continua ad assistere le forze di sicurezza afgane nel tenere testa a insorti e terroristi imbaldanziti dal ritiro del grosso delle truppe occidentali avvenuto nel 2014.

A questi tre impegni principali, si affiancano contributi italiani relativamente importanti in missioni internazionali di dimensioni più ridotte, dispiegate in altri teatri di crisi a rischio terrorismo fondamentalista, quali le missioni Ue di addestramento delle forze di sicurezza governative in Afghanistan, Mali e Somalia.

Il significativo contributo italiano fin qui descritto – sia in termini assoluti sia in proporzione ai principali Paesi europei, sia quanto a ruoli di comando e qualità degli assetti impiegati – ha mostrato grande continuità nonostante le sfide sul terreno e il costo in termini di risorse militari, economiche ed in alcuni casi di vite umane.

A conti fatti, in Libano sono stati dispiegati sotto bandiera Onu quasi novemila militari italiani in 8 anni, mentre in Afghanistan hanno servito nelle due missioni Nato oltre 45 mila connazionali in divisa nell’arco di 10 anni.

Come fare di più contro il “ Califfato”
È in questo contesto di sforzo significativo e costante di stabilizzazione anche con compiti di combattimento (senza contare le missioni ancora in corso nei Balcani o quelle di contrasto alla pirateria nel Golfo di Aden) che va misurato il “fare di più” da parte dell’Italia contro l’Isis.

Ma quella delle risorse già impegnate e realisticamente impegnabili, peraltro a fronte di ridotte spese per la difesa e dell’impiego di circa 4.800 militari nelle città italiane a sostegno delle già numerose forze di polizia, è solo una faccia della medaglia. L’altra faccia è quella della strategia al cui interno è utilizzato lo strumento militare che dovrebbe fissarne gli obiettivi politici e la cornice diplomatica affinché l’uso della forza abbia chance di successo.

Non occorre conoscere Clausewitz, secondo cui la guerra è la prosecuzione della politica con l’aggiunta di altri mezzi, per comprendere che senza un accordo tra le potenze regionali e le fazioni locali loro clientes, mediato e garantito dall’Occidente, il mero bombardamento aereo di obiettivi Isis, a Raqqa ieri o eventualmente a Sirte domani, è militarmente poco utile e politicamente molto dannoso.

Ciò non vuol dire per l’Italia tirarsi indietro quando la solidarietà europea viene invocata dopo gli attacchi di Parigi, ma significa piuttosto collocare la riflessione e la pianificazione riguardo un nuovo o maggiore impegno militare all’estero in un adeguato contesto politico-diplomatico, in modo da servire davvero la sicurezza internazionale e gli interessi nazionali.

Sicurezza internazionale e interessi italiani
Sicurezza internazionale e interessi nazionali sono due obiettivi che in larga parte coincidono, in quanto l’Italia trae beneficio diretto o indiretto da un quadro globale più sicuro e stabile, ma che non si sovrappongono completamente.

Ad esempio, è evidente che Libia e Mali sono due vulnus della sicurezza internazionale rilevanti per Roma, ma l’interesse nazionale italiano è molto più forte nel primo caso che nel secondo per motivi di sicurezza, economici, energetici, storici e geografici, e non basta la solidarietà alla Francia per invertire questo ordine di priorità.

Allo stesso tempo, non bisogna vedere i teatri di crisi della regione euro-mediterranea come isolati l’uno dall’altro, né dal punto di vista della minaccia – specialmente data la natura transnazionale dell’Isis e le dinamiche di competizione regionale – né della risposta, perché gli alleati Nato a cui Roma potrebbe chiedere appoggio per la stabilizzazione della Libia sono sostanzialmente gli stessi interessati ad un contributo italiano in Siria, Iraq o Mali.

La sicurezza nella regione euro-mediterranea è per l’Italia una questione tanto importante quanto complessa e articolata, rispetto alla quale il dibattito pubblico dovrebbe guardare alla luna e non al dito che la indica.

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