Chiarezza e paradossi sui Tornado anti-Isis
La questione di eventuali bombardamenti aerei italiani in Iraq, di cui ha parlato la stampa, senza però che ci sia stata, per ora, una conferma ufficiale, presenta diversi aspetti da chiarire e tre paradossi.
Targeting, ovvero quasi bombardare
Chiariamo innanzitutto quali sonoi compiti svolti oggi dai velivoli italiani impegnati in Iraq. Gli aerei Tornado, ed i velivoli a pilotaggio remoto Predator, compiono sortite di intelligence, ricognizione, sorveglianza, ed acquisizione degli obiettivi (Intelligence, Surveillance, Target Acquisition and Reconnaissance – ISTAR).
In particolare, l’acquisizione dell’obiettivo consiste nell’identificazione e localizzazione del bersaglio attraverso i sensori in dotazione ai velivolo, al fine di colpirlo e distruggerlo.
I Tornado non compiono questa ultima azione, che è invece svolta dai velivoli alleati a cui i caccia italiani passano, spesso in tempo reale, il compito. Se è quindi vero che i piloti italiani non effettuano bombardamenti, è altrettanto vero che sono pienamente integrati nelle operazioni svolte dal contingente internazionale. Il passo tra indicare il bersaglio da colpire (targeting) e colpirlo direttamente (bombing) è breve, in termini militari.
Il ruolo italiano nella coalizione internazionale
L’azione dei velivoli italiano si colloca in un più ampio contributo nazionale che vede anche la presenza significativa di addestratori delle forze armate irachene, le quali combattono sul terreno lo stato islamico, la fornitura di equipaggiamenti militari, ed altre forme di supporto, su richiesta del legittimo governo iracheno.
Una situazione politica, diplomatica e militare diversa da quella della Siria, fermo restando la forte interconnessione dei due teatri operativi.
In questo contesto, l’eventuale scelta di includere nei compiti dei Tornado anche quello di bombardare sarebbe in linea con l’azione dell’Italia svolta dal 2014 nel teatro iracheno, e con le relative decisioni prese a suo tempo dalle autorità politiche italiane.
È quindi paradossale parlare di “entrata in guerra” dell’Italia: il contingente italiano è già parte del dispositivo militare internazionale che da più di un anno combatte lo stato islamico.
È una questione politica…
Il fatto che passare dal targeting al bombardamento sia un passo militarmente breve non diminuisce la valenza politica di una eventuale scelta in tal senso. Si tratta infatti di collocare il contributo militare in una strategia volta sia a stabilizzare la regione del Mediterraneo, sia ad ottenere dagli alleati maggiore ascolto per le istanze italiane nelle aree di crisi più importanti per gli interessi nazionali, a partire dalla Libia.
In altre parole, si tratta di fare politica di difesa e politica estera, collocando ogni azione militare – con i suoi inevitabili costi e rischi – in una strategia che raccorda obiettivi, mezzi e modi per raggiungerli, considerando eventuali cambiamenti in teatro e/o nei rapporti con gli alleati.
Sarebbe quindi bello se, anche in Italia, la riflessione ed il processo decisionale si svolgessero in primo luogo nelle istituzioni competenti, quali il Ministero della Difesa, il Ministero degli Esteri e soprattutto la Presidenza del Consiglio.
Un dibattito che, a quel che pare, avviene al traino di anticipazioni giornalistiche che sembrano aver preceduto l’inizio dell’eventuale processo decisionale, è piuttosto paradossale e di certo non promette bene.
Il coniglio dal cilindro e i tagli alla difesa
Un terzo paradosso è costituito dalla disconnessione tra la fiammata di dibattito su eventuali bombardamenti italiani e le risorse necessarie per questa campagna militare, ed in generale per raggiungere gli obiettivi della politica di difesa – ed estera – dell’Italia.
Lo strumento rappresentato per l’Italia dalla sua partecipazione alla missione internazionale in Iraq, e concretizzato dai caccia Tornado, dai droni Predator e da assetti ed uomini dispiegati in teatro, non è un coniglio magicamente uscito dal cilindro di un prestigiatore.
È il frutto di un investimento fatto da un lato negli equipaggiamenti oggi in servizio e d’altro lato nella formazione e nell’addestramento dei militari oggi impegnati nelle missioni internazionali.
È quindi paradossale che si parli di ampliare i compiti dei militari italiani senza preoccuparsi dei tagli che negli ultimi anni hanno investito il bilancio della difesa, sia nell’acquisizione dei mezzi, sia nella formazione e addestramento delle forze armate, nella manutenzione degli equipaggiamenti e negli altri costi operativi.
Tagli che invece oggi andrebbero compensati da maggiori risorse, come fanno i maggiori Paesi europei viste le crisi in corso ai confini dell’Ue.
Se non si fa seriamente politica di difesa, l’attuale dibattito su eventuali bombardamenti italiani in Iraq rimarrà non solo paradossale, ma anche infondato e forse dannoso.
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