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Iran e ‘5+1’

MO: l’impatto dell’accordo di Vienna

20 Lug 2015 - Roberto Aliboni - Roberto Aliboni

L’accordo raggiunto il 14 luglio a Vienna fra l’Iran e i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più la Germania e l’Unione europea (Ue) dovrà essere ben accudito per funzionare.

Tuttavia, mentre molti si preoccupano dell’efficacia dei controlli e delle salvaguardie della comunità internazionale ove l’Iran venisse meno ai suoi impegni e, più o meno nascostamente, procedesse verso un utilizzo militare della sua industria nucleare, la ragione per ben accudirlo è piuttosto di capire se esso apre nella regione dinamiche politiche nuove, nel cui ambito l’accordo possa diventare un fattore di ordine e pacificazione.

In fondo è questo che l’opinione pubblica mondiale si aspetta dall’accordo, al di là della sua pura e semplice logica di non proliferazione.

Ottimisti e pessimisti
Gli ottimisti pensano che la firma dell’accordo testimonia del rafforzamento delle correnti moderate dell’Iran: le risorse economiche che la fine delle sanzioni metterà finalmente a disposizione del paese serviranno a liberalizzarlo e modernizzarlo, a rafforzare ulteriormente le correnti moderate che l’hanno voluto e quindi a favorire tendenze alla pace e alla cooperazione nella regione.

I pessimisti, invece, pensano che i moderati resteranno deboli come sono e che delle risorse disporranno i duri del regime che lo utilizzeranno per rafforzare il programma di influenza politica e militare che Teheran conduce in Siria, in Iraq, nello Yemen, in Palestina,insomma nelle varie guerre indirette che oggi dominano il panorama del Medio Oriente e del Nord Africa.

In entrambi gli scenari c’è del vero. Il risultato effettivo dipenderà dalle politiche che gli attori coinvolti porranno in essere e dalla loro efficacia. In questo senso l’accordo va accudito e gli attori esterni conservano una forte responsabilità circa la direzione che le cose prenderanno.

Il contesto politico e strategico in cui l’accordo di Vienna si colloca non è di per sé favorevole ad un’evoluzione cooperativa della regione. Così com’è oggi sembra destinato a favorire più lo scenario dei pessimisti che quello degli ottimisti.

Un contesto non favorevole
È vero che l’accordo ritarda lo sviluppo dell’impiego militare dell’industria nucleare iraniana, ma le circostanze del lungo e difficile negoziato hanno confermato agli occhi delle altre potenze regionali le capacità industriali e scientifiche dell’Iran. Al tempo stesso le limitazioni poste dall’accordo a tali capacità non appaiono del tutto convincenti. L’accordo non ha avuto un effetto positivo sulle percezioni strategiche delle altre potenze regionali.

Per il futuro la conferma delle capacità industriali e nucleari iraniane incombe sulle potenze sunnite e assai probabilmente provocherà uno sviluppo dell’industria nucleare saudita e turca, forse anche egiziana, non meno ambiguo nei suoi fini di quello che si è prodotto in Iran, cioè ironicamente potrebbe avere un effetto di proliferazione regionale (un’eventualità che da sempre molti considerano in fondo positiva, perché a quel punto la necessità di un’intesa di non proliferazione regionale diverrebbe cogente: ma qui siamo al dopodomani).

Rischio di proliferazione regionale
Inoltre, nell’immediato, dal punto di vista sunnita l’accordo è ininfluente rispetto all’equilibrio esistente delle forze e agli sviluppi sul terreno. L’Iran resta un problema, non tanto perché nessuna delle potenze sunnite crede che davvero Teheran fermerà lo sviluppo bellico della sua industria nucleare, ma soprattutto perché in sé e per sé l’accordo non altera la proiezione politica e militare dell’Iran e dei suoi alleati in atto nella regione, anzi dà loro maggior libertà d’azione – appunto secondo l’ipotesi dei pessimisti.

Infine, l’accordo emerge sullo sfondo di una politica americana che invece di rafforzare l’alleanza fra gli Usa e le potenze moderate sunnite della regione (l’Arabia Saudita e la Turchia) la indebolisce perché queste potenze moderate la percepiscono come l’ennesimo regalo strategico fatto dagli Usa all’Iran dopo il rovesciamento di Saddam e la conseguente consegna dell’Iraq agli sciiti.

Questa percezione si incastra poi con il fatto che Usa e potenze sunnite hanno nemici strategici diversi: per gli Usa è il sedicente Stato islamico, per Riad e Ankara è l’Iran con i suoi alleati, fra cui in particolare il regime di Assad.

In principio il nemico comune è l’Is, con tanto di coalizione anti-Is al seguito. Non che per Riad (meno per Ankara) l’Is non sia un nemico importante, ma gli alleati sunniti della regione, a differenza di quanto Washington lascia fare, non vogliono combatterlo fianco a fianco dell’Iran, perché ai loro occhi questo sposta l’equilibrio supremo delle forze regionali verso Teheran.

L’imbarazzo degli Stati Uniti
L’Amministrazione non manca di dare rassicurazione (ai sauditi, ma anche agli israeliani), come per esempio l’incontro a Camp David con i membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo dedicato alla sicurezza. Nondimeno la percezione fondamentale che prevale oggi fra gli alleati regionali degli Usa è fortemente erosa.

Per tutte queste ragioni, il contesto politico in cui l’accordo emerge più che favorire una dinamica di moderazione in Iran – tale da tradursi poi in un miglioramento dei rapporti nella regione – introdurre un migliore equilibrio fra Iran e Arabia Saudita, fra l’asse sciita e le potenze sunnite, sembra dare più margine ai duri di Teheran e indebolire le alleanze filoccidentali sunnite. Sembra perciò in sintonia con lo scenario dei pessimisti.

Per evitare questa prospettiva gli Stati Uniti e le altre potenze interessate ad uno sviluppo pacifico nella regione dovrebbero ora andare oltre l’accordo cambiando le proprie politiche e incoraggiando il cambiamento del contesto politico regionale in cui l’accordo è stato fatto.

Andare oltre l’accordo verso cambiamento
È difficile attendersi uno sviluppo del genere dall’amministrazione Obama, che se ne sta andando e ormai la sua politica l’ha fatta: ha sacrificato la compattezza e la credibilità delle vecchie alleanze regionali (con l’Arabia Saudita in particolare) all’ottenimento di vantaggi opportunistici a breve nella lotta al terrorismo dell’Is e di al-Qaida – in sé e per sé, qualunque cosa ne dica l’Amministrazione, un obiettivo di valore strategico dubbio.

Mentre l’Europa tace e la Russia lotta in Medio Oriente essenzialmente al fine di ottenere vantaggi altrove, la leadership che ha cominciato a raccogliersi attorno a Hillary Clinton nella prospettiva delle elezioni presidenziali pensa che gli Stati Uniti dovrebbero tornare ad appoggiare con più coerenza gli alleati arabi sunniti (e quindi contrastare con decisione l’espansione guidata dai duri di Teheran, senza aspettarsi che venga da sé, come conseguenza dell’accordo di Vienna), ma anche che bisognerebbe tornare a promuovere una politica di riforme nel mondo arabo.

In effetti, così com’è si è degradato, specialmente in questi anni di presidenza Obama, il mondo arabo non è certo in grado di offrire una soluzione ai conflitti con l’Iran né alle lotte fra le sue varie anime jihadiste, salafite e moderniste. È esso stesso fonte di conflitti.

Politica di riforme nel Mondo arabo
Ma, dopo le esperienze dei decenni passati, non è chiaro come si possa promuovere una politica di riforme nel mondo arabo e soprattutto con chi. D’altra parte, calibrare una maggiore coerenza verso i paesi sunniti conservatori con la permanenza di un’apertura agli iraniani non è davvero facile.

Un obiettivo da perseguire comunque e subito, in linea con un rafforzamento delle correnti liberale e democratiche dell’Iran, è una politica di equilibrata integrazione nel quadro dell’economia capitalistica internazionale e di sostegno alla crescita del paese approfittando della fine delle sanzioni.

Questo è un compito che l’Ue potrebbe assolvere anche al livello politico minimale in cui si trova, a patto che lo sviluppo delle relazioni economiche con l’Iran post-sanzioni sia perseguito sotto la guida di una forte regia comune con obiettivi di crescita equilibrata del paese e non si riduca invece, come già si intravvede, ad un assalto dei vari interessi nazionali, ognuno per proprio conto e senza nessuna bussola politica.

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