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Europa dal volto umano

Ue, verso sussidio di disoccupazione

2 Giu 2015 - Daniele Fattibene - Daniele Fattibene

L’aumento del livello di protezione nei confronti delle categorie sociali più disagiate è diventato un tema centrale nel dibattito italiano attuale. Diverse sono le proposte sul tavolo, elaborate da gruppi politici ma anche da esponenti della società civile.

Alcuni hanno proposto un reddito minimo garantito per i disoccupati e le classi più disagiate, altri un reddito di cittadinanza universale, altri ancora un reddito di inclusione sociale, e infine alcuni hanno ipotizzato un reddito minimo per gli over 55.

In questo contesto s’è tuttavia trascurato il dibattito emerso negli ultimi anni in Europa relativo alla creazione di un sussidio europeo di disoccupazione all’interno dell’Unione economica e monetaria (Uem).

Questa misura allevierebbe gli effetti di una recessione economica, stimolando la domanda aggregata e bloccando il fenomeno della “corsa al ribasso”, ossia la tendenza a tagliare le risorse destinate agli stabilizzatori fiscali per far fronte alle esigenze di bilancio.

In che cosa consiste il sussidio?
Il sussidio europeo di disoccupazione è uno stabilizzatore fiscale automatico che coprirebbe tutti i disoccupati dell’Eurozona che hanno contribuito ai sistemi nazionali di previdenza sociale per almeno 12 mesi prima di perdere il lavoro.

Tenendo in considerazione le differenze nel Pil pro capite dei diversi Paesi membri, il sussidio dovrebbe corrispondere all’80 per cento dello stipendio medio nazionale e al 50 per cento di quanto si percepiva da occupati e durerebbe per un periodo di tempo limitato (12 mesi).

Lo schema sarebbe finanziato da tasse pagate da lavoratori e datori di lavoro raccolte attraverso le amministrazioni nazionali e gli Stati sarebbero liberi di destinare ulteriori risorse per rendere il sussidio più generoso.

Secondo diversi studi, tale misura avrebbe un impatto minimo sul bilancio dell’Eurozona: sarebbe costata circa 50 miliardi di euro (circa lo 0,5 per cento del Pil dell’Area Euro) se applicata tra il 2000 e il 2013.

La ragioni del no
La realizzazione del sussidio ha però suscitato diverse critiche. La più importante è legata al rischio che esso provochi l’emergere di trasferimenti fiscali permanenti tra gli Stati membri. Varie simulazioni hanno infatti dimostrato che, alle condizioni già citate, alcuni Stati (Germania, Austria e Olanda) diventerebbero contributori permanenti e altri (Lettonia e Spagna) beneficiari permanenti.

Altri studi hanno poi messo in discussione il potenziale di stabilizzazione del sussidio, dicendo che esso sarebbe efficace solo per combattere la disoccupazione di breve periodo e non quella di lungo termine – che è aumentata in modo considerevole a causa del prolungarsi della crisi economica. Pertanto lo schema sarebbe più incisivo in caso di brevi crisi e non di lunghi periodi di recessione.

Accanto ai problemi fiscali ce ne sarebbero altri di natura legale. I mercati del lavoro dell’Uem sono molto frammentati tra loro ed è difficile trovare un modello che vada bene per tutti. Ogni Paese ha una sua particolare legislazione del lavoro, con sistemi più o meno generosi in termini di percentuale del Pil destinato alla spesa sociale.

Inoltre, il Trattato di Lisbona impedisce trasferimenti fiscali all’interno dell’Unione. Vi è infine il rischio di “azzardo morale”. In altre parole, il sussidio potrebbe spingere alcuni Stati a usare queste risorse per scopi diversi da quelli previsti – ma che pagano di più in termini di consenso politico -, disincentivandoli ad attuare le riforme necessarie per riformare i mercati del lavoro e superare così le distorsioni interne.

Le ragioni del sì
Tutti questi ostacoli fiscali, legali e istituzionali possono essere risolti. I vantaggi superano di gran lunga gli svantaggi. Vari studi dimostrano che se fosse stato implementato durante la recente crisi il sussidio avrebbe assorbito il 36 per cento dello shock di disoccupazione registrato nel 2009, con un grande effetto di stabilizzazione in Grecia, Lettonia ma anche in Paesi come l’Austria.

Il sussidio permetterebbe di garantire un sostegno economico a diverse categorie oggi escluse da sistemi di protezione contro la disoccupazione, come i lavoratori autonomi. Secondo le stime il sussidio consentirebbe di coprire il 31 per cento di lavoratori in più in Grecia e il 21 per cento in Italia.

La misura rappresenterebbe anche un forte stimolo per riformare i diversi mercati del lavoro dei Paesi dell’Uem. Coprendo la disoccupazione di breve termine, tale provvedimento orienterebbe gli Stati a impegnarsi in politiche volte a ridurre quella di lungo periodo, eliminando le distorsioni esistenti e consentendo di affiancare a una maggiore flessibilità un adeguato livello di protezione sociale.

Una maggiore armonizzazione delle diverse legislazioni sul lavoro consentirebbe di diminuire le barriere fra gli Stati, incrementando in modo considerevole la mobilità dei lavoratori all’interno del mercato unico europeo – oggi ben al di sotto delle sue reali potenzialità.

Verso un’Unione sociale
Creare un sussidio europeo di disoccupazione richiede certamente tempo e soprattutto una forte volontà politica. Tuttavia, se realizzata, tale misura risulterebbe molto efficace per combattere gli effetti sociali indesiderati provocati dalle crisi: non è certo la panacea di tutti i mali dell’Unione, ma contribuirebbe a dare un “volto umano” all’Uem, con scelte che hanno un effetto tangibile sulla vita quotidiana dei cittadini e che possono mettere un freno all’euro-scetticismo dilagante.

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