Obama traghetta l’America oltre 11/9
La stampa specializzata anglosassone, e sempre più spesso quella italiana, pubblicano commenti secondo cui l’America “deve” o “non deve” fare qualcosa.
Con Obama, la tendenza ha raggiunto il parossismo. Dopo l’intesa con l’Iran qualcuno l’ha descritto come un presidente debole, che sta abdicando alla grandezza degli Usa, e ha detto che l’America deve tornare indietro. Altri, con una punta d’idealismo, hanno intravisto possibilità crescenti di pace nel mondo. E Kissinger l’ha definito un “nuovo Metternich”.
I suoi otto anni da presidente non potranno competere con i 39 al potere del principe austriaco, ma, in quell’affermazione, c’è un’importante verità: come Metternich permise agli Asburgo di ritrovare l’influenza persa con Napoleone e di mantenerla per altri cent’anni, così Obama ha traghettato gli Usa oltre la pretesa post-11 Settembre di determinare da soli i destini del mondo, facilitando un riallineamento mondiale che conservi all’America una posizione di vantaggio negli anni a venire.
Un’impostazione evidente
Anche se le novità iraniane sono recenti, questa impostazione era evidente già dal primo mandato. L’obiettivo immediato è stato di costringere l’apparato diplomatico-militare statunitense a una riflessione sui suoi veri obiettivi, senza nascondere i tanti conflitti interni: prova ne è anche la conferma di Robert Gates al Dipartimento della Difesa, in continuità con la presidenza Bush.
Con due guerre ereditate dall’11 Settembre, l’Afghanistan e l’Iraq, il discorso del Cairo del giugno 2009 porta una chiarezza di fondo: il problema non è l’Islam; e gli Usa non combattono una guerra di religione. Una posizione mantenuta con l’avvento dei Fratelli Musulmani in Egitto, poi ribadita ad Al Sisi e ripetuta anche dopo l’attacco a Charlie Hebdo.
Di fronte all’iperestensione militare e all’inattuabilità del disegno di creare dal nulla democrazie modello, Obama ha posto le premesse per un’uscita onorevole dalla “guerra al terrorismo” eliminando Bin Laden, il vero colpevole dell’11 Settembre (cosa che a Bush non era riuscita) e formulando il principio della responsabilità locale, a Kabul come a Baghdad, per uno sviluppo sostenibile, chiudendo la fase in cui i repubblicani erano stati anche troppo prodighi di truppe e consiglieri, con infiniti problemi di coordinamento interno e frizioni esterne, per cercare di “ricostruire” quei Paesi.
Le fughe in avanti dei ‘piccoli bush’
Se un appunto si può fare ad Obama, semmai, è di non avere fermato i “piccoli Bush” che sull’onda delle Primavere arabe si sono lanciati in avventure che ora paghiamo caramente: in particolare Cameron e Sarkozy in Libia, veloci a festeggiare la liberazione a Bengasi, ma anche a dileguarsi di fronte all’instabilità successiva.
Inoltre se l’equidistanza obamiana nelle rivoluzioni arabe ha forse evitato l’esasperazione dei conflitti interni (con la sola eccezione libica), è anche vero che la cautela in Siria ha configurato un vero immobilismo, smosso solo dalle più recenti minacce del sedicente Stato islamico.
Sull’Ucraina s’è invece registrato un attivismo inefficace di sanzioni e l’aumento dell’allerta militare, ma su quel fronte le posizioni si sono talmente cristallizzate sui canoni della Guerra Fredda da non lasciare troppo margine di manovra nemmeno al presidente.
Proprio per questo le scelte su Cuba, sull’Iran e Israele risultano le più interessanti, perché gestite lontano dai riflettori e su un canale speciale della Casa Bianca.
In un mondo in cui la diplomazia pubblica, e la pubblicità della diplomazia, condizionano l’esito di tutti i contatti, Obama ha avuto il coraggio e la pazienza di cercare piste sottotraccia al riparo da pressioni politiche per tutti. Cento anni fa il presidente Wilson dichiarava la necessità di abolire la diplomazia segreta per preservare la pace; oggi un altro presidente Usa mostra che un canale per l’alta diplomazia, riservata per definizione, resta fondamentale.
Le piste sottotraccia con Cuba e l’Iran
Il secondo aspetto è l’ammissione che in un contesto di falchi e colombe presenti ovunque, negli Usa come a Cuba, o in Iran, le grandi scelte devono rendere più gestibile la complessità, riducendo anche i confronti interni a dinamiche più controllabili.
Certo gli accordi con Cuba e l’Iran sono ancora a rischio, ma lì dove la mancanza di un’intesa crea rendite di posizione, il calcolo complessivo deve ora considerare gli incentivi per una maggiore collaborazione. È una politica da banchiere centrale, che fissando i tassi d’interesse manda segnali a tutti cercando d’influenzare gli operatori nell’economia reale, pur senza sostituirsi a essi.
Terzo punto è che per la prima volta un presidente Usa sembra inquadrare la difesa d’Israele a prescindere dall’orientamento d’Israele stesso, con possibili sviluppi inattesi. Ove finalizzato, l’accordo con l’Iran permetterebbe addirittura a quest’ultimo di riproporre una sistemazione della questione palestinese sulla base del vecchio piano Abdallah del 2001 (saudita), basato sul principio “pace in cambio del ritiro entro i confini del 1967 e diritto al ritorno ”.
È naturalmente presto per dirlo, ma la dinamica potenziale non lo esclude e lo scontro sunnita-sciita in Yemen è il primo banco di prova per il ricalibramento regionale.
Con Obama gli Stati Uniti hanno esposto il principio che, pur senza determinare le variabili del sistema mondiale, possono almeno ridurre gli elementi d’incertezza, creando gli spazi per distensioni controllate e basate su contrappesi reciproci.
Questa impostazione comporta che altri attori sono destinati a crescere. La conseguenza immediata, taciuta ma scontata, è che la Cina sarà il primo Paese ad avvantaggiarsene, cominciando proprio dalle nuove possibilità d’investimento e commercio a Cuba e in Iran.
Ciò considerato, la polemica sulla nuova Banca Asiatica di Sviluppo e sui relativi investimenti europei non è che il primo atto di una nuova fase in cui gli Stati occidentali, nel valutare le grandi possibilità strategiche, possono anche dire no agli Usa. Il che spalanca strade nuove all’Europa, se le saprà percorrere, e all’Onu stessa, che potrebbe rilanciare un multilateralismo intelligente.
Nel frattempo, però, saranno proprio gli Usa a battere il tempo nello sviluppo di questo nuovo multilateralismo. Qualunque nuovo presidente, ed il resto del mondo assieme a lui (o lei), non potranno fingere che tale approccio non sia mai esistito, malgrado otto anni siano pochi.
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