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Vendita Pirelli a cinesi

Allodole, gufi e cassandre: una cattiva notizia per Italia

3 Apr 2015 - Andrea Renda - Andrea Renda

Nonostante il suo indiscusso appeal per i turisti di tutto il mondo, l’Italia non è mai stata una destinazione parimenti attraente per gli investitori stranieri.

È un’opportunità mancata: se il Bel Paese fosse in grado di attirare investimenti diretti dall’estero come la Germania, arriverebbero capitali per circa 16 miliardi di euro in più all’anno, l’equivalente di una piccola manovra finanziaria.

E non è tutto: gli investimenti diretti stranieri sono spesso un’iniezione salutare per l’economia anche perché portano competenze manageriali più sofisticate e un maggiore stimolo alla internazionalizzazione, due ambiti nei quali il nostro Paese, caratterizzato da un ampio tessuto di piccolissime imprese a conduzione spesso ancora familiare, è da sempre carente.

L’impennata degli investimenti, specie cinesi
In quest’ottica, ci sarebbe da rallegrarsi della recente impennata degli investimenti esteri nel nostro Paese, soprattutto (ma non solo) di provenienza cinese.

Basti pensare all’acquisizione del 40% di Ansaldo Energia da parte di Shanghai Electric Group e agli impegni della People’s Bank of China per l’acquisizione di quote al di sopra del 2% di molte società italiane quotate in borsa, tra cui Eni, Enel, Fiat Chrysler, Telecom Italia, Prysmian, Generali.

Ancora più importante è l’investimento della State Grid Corporation cinese nel 35% della CDP Reti, la quale a sua volta possiede partecipazioni in imprese cruciali per l’economia italiana, da Terna a Snam fino al Corriere della Sera.

Da ultimo, dopo che Ansaldo Breda e Ansaldo Sts sono finite, nonostante l’interesse dei cinesi di Insigma, ai giapponesi di Hitachi, l’attenzione di Pechino si è orientato sulla Pirelli e forse, in prospettiva, su World Duty Free (Benetton) e Monte Paschi di Siena.

Il recente accordo tra Camfin, la holding che controlla il 26% della Bicocca, e Chem China ha sancito l’inizio di un complesso percorso che porterà nel giro di tre anni il colosso di stato cinese a rilevare la maggioranza della Pirelli a un costo che supera di poco i 7 miliardi di euro.

Si tratta della definitiva dipartita di Pirelli, già parzialmente ceduta ai russi di Rosneft per 500 milioni di euro l’anno scorso, dalla gestione italiana, nonostante il fatto che Marco Tronchetti Provera dovrebbe rimanere alla presidenza del Consiglio di Amministrazione fino al 2021.

Novità e interrogativi dal ‘caso Pirelli’
È proprio la manovra di Chem China su Pirelli a suscitare gli interrogativi più pressanti. Per certi versi si tratta di una novità per gli investitori cinesi, fin qui per lo più orientati all’acquisizione di quote di minoranza in imprese industriali o di design (anche se non mancano alcuni precedenti importanti, tra tutti l’acquisizione dei cantieri Ferretti).

Perché la Cina ha iniziato a fare sul serio, riversando sull’Italia più di tre miliardi di euro di investimenti nel 2014? Dovremmo essere contenti del fatto che alcune imprese “storiche” stiano uscendo gradualmente dai confini nazionali? Quale sarà l’impatto sull’economia del nostro Paese?

Sui motivi dell’accelerazione cinese e dell’interesse per Pirelli vi sono opinioni le più svariate. L’ipotesi più semplice è che la Cina stia approfittando della crisi delle grandi imprese italiane (spesso affossate da debiti, come nel caso di Pirelli e Finmeccanica) e dell’apprezzamento del Renmimbi rispetto all’Euro per fare “shopping” a buon mercato di realtà imprenditoriali di assoluto interesse.

Vi è chi prospetta per la nuova Pirelli un futuro da protagonista nella strategia commerciale cinese, tesa a creare – anche grazie alla futura Banca Asiatica delle Infrastrutture la cui nascita è vista con favore anche dal nostro Paese – una nuova “via della seta” che porti i prodotti cinesi attraverso i Balcani e il porto del Pireo (già cinese) all’Europa continentale.

Ma vi è anche chi vede nell’intervento cinese un complesso tentativo di venire incontro al partner Rosneft, in chiara difficoltà per le sanzioni contro la Russia e per il calo del prezzo del greggio, consentendogli di monetizzare la propria quota azionaria, del valore di circa un miliardo di euro.

Il prevedibile impatto sull’economia italiana
Diversa è la questione dell’impatto dell’impegno cinese sull’economia italiana. Non è difficile immaginare che l’impennata degli investimenti cinesi sia dovuta anche all’accordo stretto l’anno scorso tra i primi ministri Matteo Renzi e Li Keqiang, teso a portare “più Italia in Cina e più Cina in Italia”.

Ma molti considerano l’accordo con Chem China alla stregua di una svendita, tanto più che la Pirelli possiede un patrimonio di know how e ricerca che sarebbe drammatico vedere defluire al di fuori del territorio nazionale.

E se anche il patto prevede che il centro di ricerca e sviluppo e il quartier generale di Pirelli restino in Italia e che un eventuale trasferimento debba essere approvato dal 90% degli azionisti, è evidente che in futuro l’interesse cinese sarà sempre più prevalente nell’azienda del Pirellone.

È, dunque, una questione di tempo. Alcuni, tra i più maliziosi, sintetizzano la situazione come un incontro di interessi tra Tronchetti, che ci tiene a stare in sella altri cinque anni, e i cinesi, interessati al controllo e, in futuro, al completo assorbimento del business di Pirelli nell’economia nazionale.

In conclusione, sarebbe troppo facile sostenere che a lamentarsi dell’operazione Pirelli siano soltanto i “gufi”. Più l’economia diventa globalizzata, più Paesi come l’Italia devono rendersi conto che competere sul livello dei salari è impossibile: meglio invece lavorare sul patrimonio di conoscenze e sulla produttività e creatività del nostro tessuto industriale.

Farsi soffiare know how da investitori stranieri senza formulare alcuna visione di sviluppo futuro significa, ineluttabilmente, perdere posti di lavoro e competitività industriale nel corso dei prossimi anni, proprio mentre in Europa si cerca di giocare, nuovamente, la carta della politica industriale.

Quando, e se, gli alfieri del piano Juncker dovessero arrivare a rilanciare, a suon di miliardi, la politica industriale dell’Unione europea, in Italia potrebbe essere già troppo tardi per immaginare un rinascimento industriale.

Ecco perché i cinesi, come tutti gli altri investitori stranieri, devono essere benvenuti se intendono investire nel sistema Paese, ma non quando cercano, in modo scaltro quanto legittimo, di profittare delle debolezze del nostro povero, malandato capitalismo senza contribuire alla sua maturazione.

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