Usa, i limiti del potere del presidente
La lettera aperta inviata da 47 (su 54) senatori repubblicani al regime di Teheran con l’intento di far fallire i negoziati condotti dagli Stati Uniti insieme a cinque potenze (Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia e Germania), va letta come un complesso atto di lotta politica interna contro la presidenza Obama.
Obama, leader debole?
L’inasprimento degli attacchi repubblicani al presidente, che negli ultimi mesi si sono allargati anche alla politica estera, solitamente condotta con metro bipartisan, punta all’indebolimento dell’Amministrazione democratica utilizzando sia la leva politica che quella costituzionale.
Bersaglio della critica repubblicana sono innanzitutto gli ondeggiamenti della politica estera mediorientale, dopo il fallito tentativo della mano tesa all’islam proclamato da Obama all’università del Cairo, del giugno 2009.
Le vicende di Egitto, Libia e Siria si sono aggiunte al ritiro delle truppe dall’Iraq e Afghanistan, considerato un esplicito ribaltamento della politica interventista di George W. Bush.
Oggi i Repubblicani ritengono che il negoziato con l’Iran sul nucleare, premessa di un’implicita intesa per la lotta contro il terrorismo islamista, sia un’ulteriore rinuncia dell’America a svolgere il ruolo egemone internazionale e ad usare la maniera forte che le dovrebbe essere propria.
Obiettivo: impastoiare il presidente
Oltre alle tradizionali divergenze tra Democratici e Repubblicani sull’uso della forza militare, v’è tuttavia un altro, e più importante, significato dell’attacco ad Obama condotto con l’invito a Netanyahu e con la lettera aperta all’Iran: si tratta del modo di interpretare i poteri presidenziali in politica interna ed estera.
È questo il cuore dello scontro in atto, aggravatosi dopo le elezioni di mezzo termine che hanno dato ai Repubblicani la maggioranza in entrambi i rami del Congresso.
La storia insegna che in un sistema bilanciato fondato sui pesi, contrappesi e sulla possibilità di veti reciproci tra Presidenza e Congresso, ogni importante conflitto politico tende a divenire un conflitto costituzionale. E così è in questo momento.
Si deve tenere presente che i più controversi atti recenti di Obama sono stati tutti messi in pratica facendo un uso intenso dei poteri presidenziali, espliciti e impliciti, senza l’approvazione del Congresso e per mezzo di ordini esecutivi, delibere amministrative, ed estensione di precedenti decisioni.
Così la legalizzazione degli immigrati, l’apertura a Cuba, e la pubblicazione dell’inchiesta su Guantanamo.
La presidenza sostiene oggi che anche il negoziato con l’Iran, che dovrebbe tradursi in un trattato internazionale, può essere condotta al di fuori dell’autorizzazione congressuale, mentre i Repubblicani negano questa possibilità, definendo il negoziato un “ordine esecutivo” facilmente ribaltabile.
Dietro questa disputa formale sui poteri costituzionali si cela, dunque, la sostanza del conflitto di politica estera su quel che il presidente può o non può fare, il che significa su quel che Obama nei prossimi venti mesi riuscirà a fare senza dovere negoziare con i Repubblicani.
Nel regno del dubbio brilla solo la forza
Indipendentemente dal giudizio che in futuro sarà dato sulla politica americana di questa presidenza, certo è che dopo le drammatiche vicende del presidente Bush, Obama si è trovato ad affrontare una lunga serie di situazioni impreviste in contesti del tutto mutati rispetto alle antiche alleanze e divisioni.
Chi affronta le discontinuità internazionali finisce sempre per pagare un prezzo di incertezza, soprattutto se sceglie di non tagliare con la spada i nodi che si presentano.
Ed è quello che Obama sta pagando nel tentativo di mettere in atto nuove linee strategiche tra cui il negoziato con l’Iran che, certo, ribalta la politica estera seguita dai Repubblicani negli ultimi trent’anni.
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