Libia, mettere i denti alla mediazione
In Libia, nelle ultime settimane, si sono moltiplicati gli attacchi alle risorse, in particolare ai campi di produzione degli idrocarburi, ai terminali da cui sono esportati e alle infrastrutture, con un uso sempre più intenso dell’aviazione.
Questo incremento di violenza, del tutto inconcludente, non ha un senso militare, bensì politico in quanto risponde al tentativo dei “duri” dell’una e dell’altra parte di ostacolare il negoziato Onu e impedire che, malgrado le enormi difficoltà, raggiunga il successo.
La violenza che ha fatto seguito all’entrata in scena dell’Isis si aggiunge a quella degli schieramenti libici – i rivoluzionario-islamisti di Tripoli e i conservatori di Tobruk. Tuttavia, mentre è un fattore che potrebbe portare la Libia ad uno scenario siriano qualora la mediazione fallisse e la guerra continuasse, per ora non ha nessun impatto sulle prospettive politiche della Libia.
Duri contro moderati
Le prospettive politiche sono infatti ancora in mano ai due schieramenti che si combattono dal luglio dello scorso anno. Solo che, in questi giorni, lo sviluppo centrale è la spaccatura che si è verificata al loro interno fra duri e moderati. Essa si traduce nella rumorosa ma inconcludente pressione di azioni militari che hanno il precipuo scopo di tagliare l’erba che sta appena nascendo sotto i piedi dei moderati, del negoziato e della pace.
Oggi 6 marzo si è aperta in Marocco un’altra sessione del dialogo di facilitazione della pace organizzato dall’Onu sotto la direzione dell’ambasciatore Bernardino Léon, inviato speciale del Segretario Generale. I bombardamenti e gli attacchi che hanno avuto un culmine nei giorni scorsi hanno cercato appunto di sabotarla. Come si è prodotta questa spaccatura?
La stanchezza della popolazione e della società civile per una guerra senza sbocco si è manifestata inaspettatamente nell’ambito della coalizione dei rivoluzionario-islamisti.
Mentre i militari della coalizione attaccavano i terminali di El Sider e Ras Lanuf, il Consiglio municipale di Misurata, culla e custode della rivoluzione del 17 febbraio, si è presentato ai negoziati dell’Onu a Ginevra manifestando esplicita propensione al dialogo e compiendo atti conseguenti, come il ritiro dell’interdetto sulla cittadina di Tawherga, che i misuratini nel corso della guerra rivoluzionaria punirono con l’esilio dell’intera popolazione avendo la città parteggiato per Gheddafi.
Nel campo avverso di Tobruk la faglia fra moderati e duri sta emergendo non fra militari e società civile ma fra i militari (e i politici che li appoggiano) e quella parte di classe politica che contrasta l’ascesa che il governo Al-Thinni, d’accordo con l’Egitto e i paesi arabi del Golfo, ha voluto assicurare al generale Khalifa Haftar, fino a nominarlo qualche giorno fa comandante supremo delle forze armate.
L’ascesa di Haftar e dei militari non è avventa nel contesto di una seria riforma delle forze armate nazionali – che sarebbe un’ottima cosa – ma come processo eminentemente politico che preannuncia, anche in Libia come in altri paesi arabi, una fase post-2011 di segno termidoriano e costituisce oggettivamente un atto di guerra verso la parte avversa e il tentativo di mediazione dell’Onu.
Tra rivoluzione e Termidoro
Nel parlamento e nel governo di Tobruk si sono levate molte e vivaci critiche contro la politica di Al-Thinni, in particolare da parte del ministro degli Interno al-Zanki.
La Camera dei Deputati, ha prima votato per la sospensione del negoziato in risposta agli attacchi militari degli avversari, poi ha votato per la nomina di Haftar e infine, capovolgendo il voto di pochi giorni prima, per la presenza di Tobruk alla sessione dei negoziati che si sta svolgendo in Marocco e l’invio di una delegazione. Sono chiari perciò i segni di scontro all’interno della coalizione conservatrice.
Ciò detto, i moderati, anche se riuscissero a prevalere, restano deboli di fronte ai militari e potrebbero facilmente rivelarsi incapaci di imporre loro un nuovo corso politico.
Nella coalizione di Tobruk i civili sono debolissimi: Haftar non è certo un Cincinnato; l’Egitto lo sostiene e le forze armate, compreso Nadhuri, il Capo di stato maggiore, non sono “Aslan Gheddafi” (uomini di Gheddafi), come sostiene l’opposizione, ma soldati che dopo esser stati marginalizzati da Gheddafi e dai suoi pretoriani aspirano ora a un ruolo primario, ricalcato su quello di al-Sisi e dei militari egiziani. Non è un ritorno al regime ma la prospettiva di un nuovo regime.
Ma nella coalizione di Tripoli la prospettiva potrebbe essere diversa perché la forza militare, che si concentra su Misurata, è composta da gruppi minoritari facenti capo ai Fratelli Musulmani, ai berberi e ad ex qaidisti, mentre il grosso è collegato alla rete di uomini d’affari e mercati misuratini che hanno sostenuto la rivoluzione e poi la coalizione contro i conservatori.
Questa rete è anche quella che sta dietro la differenziazione fra moderati e duri che è ora emersa nell’ambito della coalizione.
A differenza dei militari che si stanno ricostituendo sotto l’ala di Tobruk in una prospettiva termidoriana, sembra lecito pensare che ci sia invece una coesione politica fra la milizia cittadina di Misurata e il ceto che la finanzia e che assai probabilmente esercita una leadership politica su di essa più genuina ed effettiva di quanto non accade a Tobruk.
Essenziale una decisa iniziativa occidentale
Se questa spaccatura fra civili e militari esiste e se c’è qualche possibilità che una parte dei civili riesca a esercitare influenza sui propri militari, la mediazione ha più potenzialità di quanto l’opinione internazionale oggi non le attribuisca.
Queste potenzialità, che comunque esistono e sono all’origine della differenziazione che si è prodotta all’interno delle coalizioni, non sono però sufficientemente appoggiate dai governi occidentali, che pure sono quelli che hanno riconfermato la strada del negoziato.
La diplomazia occidentale deve imporre sanzioni personali, esercitare pressioni affinché i suoi alleati nella regione, come l’Egitto, la Turchia e l’Arabia Saudita, limitino o cessino il loro sostegno ai duri, infine – seguendo il suggerimento che è appena venuto dall’Onu – devono mettere in pratica una forma più o meno coercitiva di sorveglianza marittima onde impedire i traffici di armi e petrolio che fanno capo, anche qui, ai duri di entrambe le parti.
Stranamente, i paesi occidentali sostengono la mediazione, ma non sembrano voler mettere i necessari denti alla loro stessa politica.
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