Sguardo europeo sul Jobs Act
Le discussioni sulle riforme del mercato del lavoro in Italia finiscono sempre per assumere connotazioni ideologiche e puntualmente si focalizzano sull’Articolo 18.
Basta pensare al dibattito che si è creato in queste ultime settimane, a ridosso della conferenza sul lavoro organizzata da Matteo Renzi a cui parteciperanno i capi di stato e di governo europei.
Guardare al Jobs Act in chiave comparata aiuta a capirne meglio l’effettiva portata riformatrice e il contributo che può apportare alla ripresa economica.
La proposta prevede infatti: i) l’abolizione del dualismo attraverso la creazione del contratto unico; ii) l’armonizzazione dei sussidi di disoccupazione; iii) un sostegno alle politiche attive per l’occupazione.
In buona sostanza, il Jobs Act ha l’aspirazione di mettere in pratica il principio della flexicurity, che è peraltro al centro della Strategia europea per l’occupazione già dal 2007. Una strategia integrata che punta a valorizzare, allo stesso tempo, flessibilità e sicurezza nel mercato del lavoro. Se la riforma fosse attuata, il mercato del lavoro in Italia assomiglierebbe sempre più a quello della Danimarca.
Questo in parte giustifica la reticenza generale: si prospetta un cambiamento epocale che non fa parte della cultura istituzionale del nostro paese in cui la protezione dei lavoratori è avvenuta per 50 anni attraverso la tutela del posto di lavoro piuttosto che dell’occupazione in generale.
Flessibilità in uscita in Europa
Negli ultimi anni siamo stati abituati a dibattiti sull’Articolo 18 altamente ideologizzati che non hanno certo aiutato a comprendere i termini della questione. Può essere utile, a tal fine, guardare alle legislazioni di alcuni paesi europei in tema di licenziamenti individuali.
Partendo dalla Germania, ad esempio, dove (in modo simile all’Italia) la legge di tutela dai licenziamenti discriminatori o ingiustificati mira a garantire la conservazione del posto di lavoro. In caso di licenziamento nullo o ingiustificato, il Tribunale ordina con sentenza il mantenimento del rapporto di lavoro. Una normativa che si applica a tutti i lavoratori con anzianità di servizio di almeno sei mesi e a tutte le imprese che occupino più di dieci dipendenti.
In Francia, il sistema è diverso: l’obbligo di reintegrazione opera in tutti i casi di licenziamento discriminatorio e in caso di violazione di diritti fondamentali e di “libertà pubbliche”. Negli altri casi, il licenziamento privo di giustificato motivo comporta una sanzione di natura risarcitoria, per un ammontare minimo di sei mensilità per i dipendenti con almeno due anni di anzianità e assunti da imprese con più di 11 addetti. Per gli altri, il giudice può commisurare il risarcimento al danno subito.
Infine vi è il modello danese. Nonostante l’accordo di livello interconfederale rimetta al collegio arbitrale il potere di disporre la reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato, nella prassi prevalgono soluzioni di tipo economico (il risarcimento è limitato a un anno di retribuzione, in caso di lunga anzianità lavorativa).
Europa sociale?
Le competenze sociali dell’Unione europea sono notoriamente assai più limitate di quelle economiche. Negli ultimi mesi qualcosa si è però mosso anche in campo sociale. Piccoli passi per i lavoratori disoccupati a cinque anni dall’inizio della crisi, ma importanti in vista della creazione di un’Europa sociale.
Della questione si occuperà la conferenza Ue sul lavoro che si svolgerà a Roma l’8 ottobre, ma resta da vedere se porterà all’adozione di vere nuove politiche europee in tema di occupazione.
Mega Inps europeo
La possibilità di mettere le basi per qualcosa di rivoluzionario però ci sarebbe. Sebbene largamente limitato ai ‘tecnici’, il dibattito sulla possibilità di creare uno stabilizzatore automatico per la zona euro si fa sempre più insistente.
Due le proposte al vaglio: la prima consiste nel trasferire al livello sovranazionale la gestione dei sussidi di disoccupazione, creando un mega Inps in cui far confluire i contributi per l’assicurazione contro la disoccupazione di tutti i lavoratori della zona euro. In caso di perdita del posto di lavoro, è da questo fondo che arriverebbe la tutela del reddito.
Il fondo europeo garantirebbe così un minimum uguale di tutele per tutti i lavoratori e una certa stabilizzazione dell’economia in caso di shock. Ciascun paese avrebbe poi la libertà di alzare il livello di protezione, elargendo un sussidio più generoso o per un numero maggiore di mensilità.
La seconda proposta al vaglio segue una logica completamente diversa: non avrebbe come scopo di smussare una percentuale minore di tutti gli shock, ma di offrire riparo alle economie della zona euro (o dell’Ue) in caso di crisi di grande portata. In tal caso, il valore aggiunto dell’intervento europeo sarebbe in una forma di assicurazione dagli shock contro i quali gli stabilizzatori nazionali non sono sufficienti. Il fondo prenderebbe la forma di un sistema di riassicurazione degli ‘Inps’ nazionali.
Trasformare questa possibilità in realtà è la sfida più importante che ci aspetta nei prossimi anni per costruire davvero un’Europa sociale. L’Italia può giocare un ruolo fondamentale in questa partita, non solo a livello di politica europea, spingendo per l’adozione di politiche comuni, ma anche a livello nazionale, costruendo un mercato del lavoro e un sistema di welfare più moderni.
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