Le forze Nato rimangono essenziali
A fronte di un inadeguato livello di sicurezza dell’Afghanistan, due dinamiche favorevoli agevolano la stabilità politica a breve-termine.
La prima è l’accordo tra i due pretendenti alla presidenza della Repubblica islamica dell’Afghanistan che, attraverso un complesso negoziato, si è concluso con la spartizione del potere tra Ashraf Ghani Ahmadzai, formalmente il presidente, e Abdullah Abdullah, artificiosamente nominato Chief executive officer (di fatto un primo ministro).
Si rimane in attesa della revisione della Carta costituzionale per legittimare tale accordo; tempo stimato un anno, ma parliamo di tempi afghani. Una soluzione che, elettori a parte, rende soddisfatti i principali gruppi di potere (pashtun e non-pashtun), avvia il processo di power-sharing, posticipa una possibile guerra civile e apre al processo negoziale con i taliban, ma non è garanzia di stabilità a medio-lungo termine.
L’accordo sullo statuto delle forze
La seconda è la firma dei tanto attesi accordi di sicurezza. Il 30 settembre il governo afghano ha infatti firmato il Security and Defence Cooperation Agreement (già Bsa – Bilateral Security Agreement) con gli Stati Uniti, e lo Status of Forces Agreement (Sofa) con la Nato; il secondo è il prerequisito per la permanenza di truppe straniere in Afghanistan dal gennaio 2015.
Inoltre, gli accordi consentono al nuovo establishment afghano di recuperare la credibilità di uno stato a rischio di fallimento che avrebbe potuto essere abbandonato a sé stesso; un doppio risultato, ottenuto nei confronti dell’opinione pubblica afghana (consenso interno), e dei partner internazionali (credibilità).
Una decisione responsabile, primo atto formale del governo di “unità nazionale”, che ha consentito di ottenere un ulteriore effetto favorevole: la conferma degli aiuti economici internazionali, la cui interruzione avrebbe portato al caos a causa di un’economia nazionale totalmente dipendente dai finanziamenti stranieri.
La guerra ai terroristi prosegue
Con la chiusura della missione Isaf a fine anno, la Nato limiterà il suo impegno al sostegno delle forze afghane attraverso attività train, assist e advise.
Ma, benché l’attenzione mediatica sull’Afghanistan sia concentrata sul futuro impegno dell’Alleanza atlantica, è importante evidenziare come sul piano operativo – nel solco della tradizione che ha visto Isaf al fianco di Enduring Freedom – saranno due le “anime” della componente militare: la “Resolute Support”, missione Nato non-combat a guida statunitense, e la missione Usa di contro-terrorismo, questa sì di combattimento, indipendente dalla Nato e finalizzata al contrasto di al-Qahida e dei gruppi a essa affiliati (tra i quali anche i taliban, qualora non aderissero all’ipotesi di soluzione negoziale).
Sul piano temporale, sebbene Obama insista – per ragioni di opportunità politica interna (elezioni di mid-term) – nel definire quello afghano un impegno a breve termine (“dimezzamento delle truppe nel 2016 e completo ritiro nel 2017”), gli accordi Usa-Afghanistan sanciscono la disponibilità di basi militari fino al 2024, con possibilità di rinnovo; dunque, al di là delle parole, un impegno a lungo termine.
Sul piano spaziale, alle forze straniere è garantito il possesso di basi militari operative e strategiche, aeroporti e porti terrestri, per tutto il periodo di permanenza sul suolo afghano (2024). Centro della nuova missione è l’asse Kabul/Bagram attorno a cui gravitano i quattro punti radiali di Mazar-i-Sharif (nord), Herat (ovest), Kandahar (sud), e Jalalabad (est).
In tale contesto, sebbene quello afghano tenda a imporsi come fronte secondario – ma non stabilizzato – l’Italia onora l’impegno preso. E lo fa garantendo una presenza militare di tutto rispetto (circa mille uomini) e il ruolo di leadership dell’area occidentale del paese (Herat), insieme a Stati Uniti (Bagram, Kandahar e Jalalabad), Germania (Mazar-i-Sharif) e Turchia (Kabul).
Un impegno che prosegue parallelamente a quello annunciato dal ministro della Difesa Roberta Pinotti e volto a confermare un ruolo attivo dell’Italia nella lotta allo jihadismo dello Stato Islamico (IS/Isis) ormai giunto sulle coste del Mediterraneo.
C’è un legame tra Medio Oriente e Afghanistan
Ma la scelta non deve e non può essere tra la lotta al terrorismo in Medio Oriente e il sostegno all’Afghanistan poiché, in un mondo sempre più interconnesso dove alle conflittualità locali si sovrappongono le dinamiche globali, la violenza radicale che imperversa nel Vicino e Medio Oriente si espande a macchia d’olio (compreso in Libano, dove è impegnata militarmente l’Italia) arrivando a colpire anche l’Europa e l’Asia.
Al di là dei risultati sul campo di battaglia, preoccupano la diffusione dell’ideologia, il suo radicamento, il proselitismo che accende la violenza e che permane negli animi. E un Afghanistan non stabilizzato è una terra di facile conquista per le ideologie radicali; come la storia recente del paese insegna.
I taliban di oggi non sono quelli del 2001, ma potrebbero tornare a esserlo attraverso il contatto (reale o “virtuale”) con i radicali operativi in Iraq, o in Siria; anche in questo caso un copione già conosciuto. E nell’ottica di promuovere il consolidamento del fronte sunnita contro l’Occidente, i taliban pachistani hanno già fatto la loro scelta sostenendo pubblicamente la causa dell’Isis.
Una ragione in più per tenere viva l’attenzione sull’Afghanistan.
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