La nuova guerra dei prezzi tra Usa e Arabia Saudita
Nel 2014 gli Stati Uniti si sono aggiudicati il titolo di più grande produttore di petrolio a livello mondiale, con oltre 11 milioni di barili prodotti solo nel primo trimestre.
Se già nel 2010 il paese aveva superato la Russia diventando il principale produttore di gas naturale, oggi ha superato anche la produzione petrolifera dell’Arabia Saudita.
Tale successo è dovuto al tanto discusso “shale”, ovvero idrocarburi non convenzionali intrappolati in formazioni rocciose di argilla.
La rivoluzione energetica statunitense ha un impatto a livello nazionale, sostenendo la ripresa economica, ma si ripercuote altresì sul mercato petrolifero mondiale, con un aumento dell’offerta e un conseguente impatto sui prezzi.
Ad oggi, nessun concorrente degli Usa, tanto meno l’Arabia Saudita, sembra intenzionato a ridurre le quote di mercato per contrastare la caduta dei prezzi del petrolio e salvaguardare delicati equilibri geopolitici. Questo contrasto, che alcuni analisti chiamano ormai “guerra dei prezzi”, avviene in un momento di crescenti incertezze del quadro internazionale.
Shale devolution
Le nuove scoperte, sebbene non coprano completamente la domanda interna degli Stati Uniti costringendoli comunque a continuare a importare petrolio, consentono al paese di migliorare la bilancia commerciale e rilanciare l’occupazione, dando un grande impulso ad alcune economie regionali.
La forte correlazione tra aumento della produzione di petrolio, crescita economica e dei salari medi è particolarmente evidente in Texas e nel Nord Dakota, due Stati che vantano oltre la metà della produzione nazionale. È soprattutto qui che il petrolio viene liberato da strati argillosi profondi attraverso un processo di fratturazione della matrice rocciosa (“fracking”).
Così, secondo l’Agenzia energetica internazionale, gli Usa arriveranno a produrre 13,1 milioni di barili al giorno nel 2019 e rimarranno il principale produttore petrolifero fino al 2030, quando il Medio Oriente, con le sue abbondanti risorse, dovrebbe riemergere come forza principale.
Fino ad allora, la shale revolution consentirà di ridurre le importazioni statunitensi di petrolio al 22% nel 2015: il livello più basso mai raggiunto negli ultimi 45 anni.
Ciò non significa, tuttavia, che gli Stati Uniti siano prossimi alla completa indipendenza dall’oil&gas mediorientale. Come in una sorta di déjà vu, infatti, si tratta di un contro sorpasso: negli anni Ottanta Riyadh aveva superato a sua volta Washington.
Gli Usa consumano troppo per poter essere autonomi, e inoltre le raffinerie statunitensi non possono essere alimentate soltanto dal tipo di greggio prevalente nel paese. Le importazioni energetiche, soprattutto da Canada e Arabia Saudita, continueranno dunque a incidere sulla bilancia commerciale.
Emergenza prezzo
In un primo tempo, l’aumento dell’offerta energetica Usa era stato bilanciato dal calo della produzione libica, dalle incertezze in Nigeria, dalle sanzioni contro l’Iran, dall’impatto della crisi siriana e di quella sudanese e, più recentemente, dal sorgere di rischi in Iraq legati all’espansione del gruppo islamico Isil e dall’acuirsi della crisi tra Russia e Ucraina.
Nell’ultimo periodo, invece, la disponibilità mondiale di greggio è aumentata significativamente, anche a seguito dei grandi investimenti internazionali che erano stati intrapresi dal 2003.
Prezzi bassi del petrolio costituiscono una minaccia per i paesi le cui economie dipendono dall’oro nero.
Il Pil russo rischia di perdere il 2%, l’Iran, che rischia di trovarsi in ginocchio, non riesce a conquistare quote di mercato anche per via delle sanzioni occidentali, e il Venezuela è vicino al collasso. Uno scenario che non sembra poter migliorare nel breve termine.
La risposta Opec all’aumento dell’offerta
Gli occhi sono dunque puntati sull’Arabia Saudita, che con il 16% delle riserve petrolifere è in grado di influenzare il mercato e tiene le redini dell’organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, Opec.
Riyadh però, nonostante l’aumento dell’offerta mondiale, non intende ridurre la sua produzione, né avvantaggiare il concorrente statunitense o i suoi rivali geopolitici (a partire da Teheran).
I sauditi sfidano quindi l’attuale contesto accettando, almeno per ora, il conseguente calo dei prezzi. Anche Iran e Iraq hanno seguito la stessa strategia di difesa delle quote di mercato, abbassando i listini per l’Asia.
La questione sarà certamente all’ordine del giorno del vertice Opec del 27 novembre, da cui però non si attendono grandi novità.
I mediorientali rimangono alla finestra, aspettando forse l’impatto che quest’andamento dei prezzi avrà sulle piccole e medie società energetiche statunitensi.
Esse potrebbero infatti costituire un nuovo fattore in grado di influenzare il mercato: essendosi dovute indebitare per avviare l’attività produttiva, necessitano di ritorni rilevanti in tempi brevi in mancanza dei quali potrebbero essere costrette a chiudere i propri rubinetti, riducendo così gradualmente l’offerta.
Sembra effettivamente ripresentarsi uno degli elementi più tradizionali e imprevedibili della geopolitica: una nuova “guerra dei prezzi”.
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