IAI
Iraq, Siria e “stato islamico”

Questa guerra ha bisogno di una strategia

23 Ago 2014 - Laura Mirachian - Laura Mirachian

Abbiamo aspettato gli americani mentre gli americani aspettavano noi. Attribuendo loro ‘la responsabilità delle responsabilità nelle attuali vicende irachene, come se gli europei, in un modo o nell’altro, non vi avessero partecipato.

Nel frattempo, non abbiamo raccolto informazioni sufficienti sulla portata del fenomeno IS (Islamic State), e il suo straordinario dinamismo. Solo ora, che gli americani sono entrati in scena, adducendo ragioni umanitarie e di sicurezza del proprio personale in loco, ma in realtà guidati dall’incubo del 9/11, stiamo avviando il lavoro di ricognizione: quanti sono? chi sono? chi li guida? chi li finanzia e perché? Dove sono le basi operative? Chi è all’apice di questa efficientissima catena di comando? Dove comincia e dove finisce il califfato? Chi sono gli emiri di oggi, e quelli in pectore di domani?

Sull’ IS disponiamo delle notizie, atroci, che l’IS stesso vuole far sapere al mondo. Sappiamo tuttavia che ha allargato rapidamente i propri insediamenti in Siria , che si muove con scioltezza tra Siria e Iraq fino alle porte di Baghdad, che usa metodi spietati e un sistema spregiudicato di alleanze con clan sunniti alla disperazione, che unisce ad armamenti sofisticati tattiche da guerriglia, che agisce con lucidità e precisione militare, che ha sradicato almeno mezzo milione di persone tra cui migliaia di curdi di Siria, che considera gli sciiti nemici da contrastare, e le minoranze, cristiane e non, presenze da eliminare, e che vede nell’Occidente il principale nemico.

Assassinio di James Foley docet. Da non sottovalutare nemmeno la citazione di Roma, e in sott’ordine Istanbul, come mete da abbattere. Come per Al-Qaida in tempi recenti, il vero nemico dell’IS è l’Occidente, evidentemente percepito in caduta libera, e arroccato sulla difensiva, non più incline a intraprendere crociate. Anche l’IS commette errori di valutazione.

Ora l’Occidente, pur con estrema lentezza e mille remore, sta reagendo. E quanti, altrove, hanno finanziato e rifornito le armate dell’IS cominciano a temere per la solidità dei propri reami. La Nato metterà a fuoco il problema il 5 settembre. La Ue lo ha fatto il 15 agosto in una riunione di emergenza.

I Peshmerga non bastano
È chiaro che armare i peshmerga può essere solo un tassello di una strategia ampia e complessa. Un primo passo, un’idea brillante già sperimentata a suo tempo con successo, valida a fornire risposta alle nostre opinioni pubbliche, cristiane e non, inorridite dall’efferatezza esibita in video. E ad evitare almeno per il momento di posare i ‘boots on the ground’, argomento che non vale solo per gli americani.

Un secondo passo è stato convincere Al Maliki a lasciare il posto. Il terzo, cruciale, dovrà essere convincere i clan sunniti di Anbar e dintorni a schierarsi con Al Abadi, e i curdi stessi ad accantonare per ora l’obiettivo dell’indipendenza.

Occorrerà dotarsi davvero di buoni argomenti, visto che da anni ai sunniti di Iraq è stato riservato il ruolo di vittime e che i curdi intravedono un’occasione storica (per molti versi meritata) per sganciarsi. Ma la strategia non può esaurirsi qui.

Spuntano da Parigi e da Londra iniziative di conferenze internazionali. L’idea non è nuova, e suona perfino banale visto che analisti appena più esperti dell’area l’hanno enunciata da tempo. Uno schema già sperimentato negli anni scorsi per i Balcani, peraltro non senza difficoltà e tempi lunghi.

Una conferenza internazionale, perché non vada fallita e non faccia emergere contrasti piuttosto che appianarli, presuppone una serie di decisioni a monte, da far maturare con una vasta e impegnativa concertazione.

Presuppone anche che si guardi non solo al breve ma al medio-lungo termine. E che essa non sia sporadica ma ‘permanente’, per accompagnare un movimento di de-scalation dapprima e poi una stabilizzazione regionale il più possibile democratica, a partire dalla ricostruzione di istituzioni inclusive e proseguendo con aiuti alla modernizzazione e allo sviluppo.

Presuppone, soprattutto, che tutti i protagonisti regionali e internazionali vi partecipino bona fide, ognuno conferendo il contributo di competenza.

Due questioni da affrontare
Nessuna strategia può prescindere dal considerare il bacino Siria-Irak-Libano nel suo insieme. Non solo perché l’IS ha scavalcato le frontiere a partire da basi verosimilmente collocate in Siria (in primis Raqqa, in zona curda) e si muove con agio nei due territori investendo anche il Libano, ma perché la Siria si è dimostrata la madre di tutte le battaglie, il luogo in cui si esercitano tutte le ambizioni e velleità dei paesi vicini, senza che nessuna forza abbia potuto per ora prevalere: non basta respingere l’IS nelle sue roccaforti in Siria, equivarrebbe ad avvallarne la presenza in area, a prolungarne le capacità militari, a sottovalutarne il potenziale dirompente di sovversione nel vicinato e di terrorismo nei nostri paesi

Occorre fare chiarezza su quali possano essere gli assetti futuri nell’area: vogliamo preservare i confini e puntare su assetti inclusivi di minoranze etnico-religiose, immaginando Stati che fondino la propria legittimità sulla rule of law, rispetto dei diritti umani, standard sufficienti a garantire tutti i cittadini, criteri di modernizzazione e sviluppo che implichino pari opportunità per tutti/tutte?

Oppure siamo disposti a percorrere scorciatoie basate sulla separazione atavica tra sciiti e sunniti, cristiani e islamici, emiri e califfi, o altro? e in tal caso quale sarebbe la spartizione delle risorse (energia anzitutto, ma anche terreni fertili o meno)?

Teniamo presente che nel secondo caso sarebbe tra l’altro ineluttabile un qualche implicito riconoscimento all’accorpamento di Crimea e magari Ucraina orientale sotto il manto protettivo della “madrepatria” Russia. La stessa problematica si pose a suo tempo per i Balcani ove, nell’incertezza, imperversarono conflitti, pulizie etniche, esodi di intere comunità.

Il ruolo chiave degli attori regionali
È necessario che le risposte a queste domande siano concordate e consolidate in una larga intesa anzitutto con i protagonisti regionali, in particolare Golfo, con in testa Arabia Saudita, Turchia, Iran, e più oltre Egitto, Lega Araba, Unione Africana.

Questi stessi protagonisti regionali andrebbero richiamati ad un’immediata uscita dall’ambiguità: un conto è offrire generoso riparo a profughi e migranti e un conto è alimentare la conflittualità con finanziamenti, forniture di armi, libero transito di miliziani dal proprio territorio, tolleranza rispetto all’estremismo ideologico-religioso – aspetto questo davvero cruciale, per il quale le democrazie occidentali non stanno dimostrando particolare attivismo, come inibite da una dipendenza energetica e logistica che rischia di essere pagata in termini di sicurezza nazionale e globale.

Tutti questi paesi hanno ora buone ragioni per correggere una politica destinata prima o poi a tracimare con effetti sovversivi entro i loro confini.

Essenziale è il coinvolgimento dell’Iran, che sta sostenendo la Siria di Assad ma potrebbe dar prova di pragmatismo ove, come già dichiarato, possa ottenere una chiusura soddisfacente della questione nucleare e, soprattutto, ove il risultato finale dell’intera operazione si traduca in un nuovo equilibrio di influenze in area tra arabo-sunniti e sciiti: un ‘rebalancing’ probabilmente messo in conto dallo stesso Obama.

Oltre la regione, occorre naturalmente la partecipazione diplomatica della Russia, oggi in rotta di collisione con l’Occidente sulla vicenda ucraina, ma ben consapevole dei rischi di commistione dell’estremismo mediorientale con le mai sopite istanze del mondo islamico interno. La Russia di Putin potrebbe anche scorgere un interesse a collaborare per mantenere una influenza in area nonché riscattare il proprio prestigio e credibilità internazionali. Senza escludere che, paradossalmente, lo scacchiere mediorientale possa contribuire ad alleggerire lo scontro in quello est-europeo.

Non si può aggirare la questione siriana
Infine, l’aspetto forse più difficile: la Siria. Nella partita siriana, non vi sono peshmerga su cui poggiare una strategia internazionale di contrasto all’IS. Né i curdi siriani (rifugiatisi nei mesi scorsi in Kurdistan e da ultimo unitisi alle fila dei curdi iracheni) né tantomeno il ceto medio, imprenditori, professionisti, insegnanti o altro, organizzatosi in opposizione al regime, paiono in grado di esercitare, da soli, una qualche resistenza efficace all’IS.

Si può discutere sulla opportunità di fornire anche a loro armi e addestramento militare. Ma i tempi stringono. Occorrerà quindi riflettere se e come utilizzare la professionalità delle Forze Armate siriane (o parte di esse), le sole che dimostrano una capacità di contrasto e che da ultimo hanno inflitto all’IS sconfitte e arretramenti.

Del resto, questo Esercito, in larghissima parte sunnita, che ha combattuto pressoché compatto per anni senza mai sfaldarsi (isolati i casi di diserzione, che secondo alcune fonti si sarebbero uniti proprio all’IS) potrebbe rivelarsi fedele allo Stato più che al regime, e non andrebbe in ogni caso smantellato per non ripetere l’errore compiuto in Iraq. Al ceto medio, per contro, spetterà il compito di ricostruire la Siria del futuro, e di governarla.

Un’operazione dunque particolarmente complessa, che richiede unanimità di intenti innanzi tutto tra europei e occidentali, senza fughe in avanti unilaterali o arretramenti, chiarezza di obiettivi, e un’informativa accurata presso le opinioni pubbliche che non sia dettata da animosità o emotività del momento.

.