L’incerto pendolo tra guerra e contro-terrorismo
L’esecuzione del giornalista americano James Foley sta producendo una svolta nell’approccio americano alla vasta e ramificata crisi in Medio Oriente. Si ha notizia infatti di primi attacchi americani in Siria alle forze delloi Stato Islamico (IS), in aggiunta alle operazioni con le forze curde già in corso nell’alto Iraq.
In una delle sue ultime conferenze stampa, al Pentagono, il segretario alla Difesa, Chuck Hagel, ha definito l’IS una minaccia di lungo termine, citando possibili attentati terroristici sul suolo occidentale. Ha aggiunto il generale Martin Dempsey, capo di stato maggiore delle forze americane, che le caratteristiche del gruppo implicano, se lo si vuole debellare, non delle semplici operazioni di polizia ma la necessità di “sconfiggerlo”, e ciò – ha detto – non può essere fatto senza attaccarlo anche in Siria.
Tra contro-terrorismo e guerra
L’ipotesi più probabile è che la svolta sarà nell’entità dell’operazione di contro-terrorismo già in corso in Iraq, in linea con la strategia enunciata da Barack Obama a West Point il 28 maggio scorso, e senza cambiare i presupposti della sua reazione agli accadimenti in Iraq: nessun intervento di truppe di terra americane e un cambio di passo nella politica irachena, dal settarismo di Nouri al-Maliki ad un governo di unità nazionale, quale premessa imprescindibile per la sconfitta dell’IS.
Tuttavia, pressioni e pulsioni sono all’opera negli Stati Uniti e in Europa perché si vada in qualche modo oltre una, sia pur accresciuta, operazione di contro-terrorismo, con un intervento militare più largo e strutturato. Ma ciò assomiglia più a un cedimento di nervi che ad un’appropriata analisi della situazione complessiva nella regione e di ciò che essa sensatamente permette.
Innanzitutto, molti analisti segnalano i limiti delle capacità militari dell’IS, sottolineando che le sue folgoranti vittorie sono dovute più all’estrema debolezza politica dei suoi avversari siriani e iracheni che alla sua forza militare.
In Siria, l’IS ha potuto allargarsi nell’est del paese, poiché lo scontro centrale si svolge nell’ovest e nel nord, dove il governo di Damasco è costretto a concentrare le sue forze perché è lì che si risolverà – semmai sarà possibile – lo scontro.
Per ragioni analoghe, le forze delle opposizioni, islamiste e nazionaliste, impegnate contro Assad hanno solo marginalmente impegnato l’IS nell’est della Siria, senza contare poi le ambiguità che intercorrono fra i vari gruppi islamisti, salafiti e jihadisti, spesso guidati da fattori locali e circostanziali, con alleanze e scontri che vengono e vanno.
Un fenomeno soprattutto iracheno
Come ha convincentemente argomentato Yezid Sayigh, del Carnegie Endowment for International Peace, l’IS viene dall’Iraq e resta socialmente radicato nell’ambiente radicale sunnita di questo paese dove è nato e dove, non a caso, è tornato facendo leva, per il suo successo, esattamente su questo radicamento e sulla miopia della guida sciita imposta al paese da al-Maliki.
La forza dell’IS in un Iraq malato di settarismo non esiste necessariamente altrove, come è stato dimostrato nella recente battaglia di Arsal, cittadina al confine fra il Libano e la Siria, dove l’esercito libanese ha respinto con successo l’offensiva scatenata dall’IS e da Jabath al Nusra, tatticamente alleati per vendicarsi dell’uccisione di un loro leader.
D’altra parte, i curdi, politicamente coesi, stanno rispondendo con grande efficacia all’aggressione dell’IS. Se la Giordania fosse anch’essa aggredita (come da molte parti si teme o si spera), la risposta sarebbe anche più efficace (e non mancherebbe l’appoggio americano).
Fondamentalmente resta valida, perciò, l’intuizione di fondo di Obama per cui sono le condizioni politiche in Iraq a dover essere cambiate affinché sia possibile iniziare a edificare un efficace contrasto militare alle barbare prodezze di Stato Islamico.
Ostacoli interni ed esteri
Occorre però riconoscere che le condizioni politiche sono quanto mai impervie, in Iraq e nella regione. Sarà sufficiente il passaggio da al-Maliki ad Haidar al-Abadi? Quest’ultimo ha di fronte a sé un compito davvero arduo sul fronte sunnita, ma anche su quello curdo. I curdi non permetteranno che una ritrovata solidarietà nazionale fra sciiti e sunniti si realizzi a scapito dei loro progetti più o meno indipendentisti o autonomisti.
In quanto a ricostituire una qualche coesione fra sunniti e sciiti, si è subito visto quanto ciò sia problematico con l’attacco di del 22 agosto scorso alla moschea di un villaggio vicino Baquba, in cui miliziani sciiti avrebbero trucidato una settantina di fedeli sunniti.
L’animosità fra le due comunità, acuita dalla politica di al-Maliki e dalla guerra civile del 2006-2007, è un fatto reale che si presta a facili strumentalizzazioni da parte di chi intendere minare la coesione nazionale che al-Abadi è stato chiamato a creare così come a facili provocazioni da parte dello stesso IS. Subito, due deputati sunniti hanno abbandonato i negoziati.
Il disegno di ricostituzione di una solidarietà politica irachena è ostacolato dalle condizioni conflittuali che prevalgono nella regione. È una prospettiva che non va a genio a Riyadh e alla coalizione “sunnita” che i sauditi hanno costituito a partire dal 2011 contro l’Iran e gli sciiti. La coalizione “sunnita” capeggiata e – dov’è il caso – foraggiata da Riyadh combatte su due fronti: quello anti-iraniano e anti-sciita, e quello contro i Fratelli Mussulmani.
In Siria i due fronti si sposano e le due coalizioni fanno il pieno da entrambe le parti (tutti i nemici degli sciiti, da una parte, e tutti gli sciiti – l’Iran, Hizbollah, gli iracheni – dall’altra; come pure i nemici dei Fratelli, compreso l’Egitto, da un lato, e tutti i loro sostenitori, principalmente Turchia e Qatar, dall’altro).
In questa situazione di conflitti plurimi e trasversali è difficile perseguire qualsiasi progetto politico basato su una solidarietà regionale. Qualsiasi mossa ha un rovescio: anche le azioni di contro-terrorismo eventualmente iniziate dagli Usa in Siria, si prestano all’obiezione che potrebbero essere (o saranno) viste come un accordo con Bashar al-Assad. Ciò rende molto improbabili significative e impegnative iniziative militari a sostegno dell’uno o dell’altro. Si spiegano così le esitazioni di Obama a superare la soglia del contro-terrorismo.
La voglia di “fare qualcosa”
Tuttavia, prevale in Occidente, assieme ad un’inquietudine un po’ paranoide, una consistente insoddisfazione verso queste esitazioni e il senso che occorra intervenire, fare insomma qualcosa. Così, Sergio Romano, dalle colonne del Corriere della Sera, suggerisce un intervento multinazionale in Iraq nel quadro Onu, simile a quello che Bush padre organizzò per respingere l’invasione saddamita del Kuwait.
Il presidente François Hollande ha annunciato che la Francia proporrà una conferenza internazionale sull’Iraq. Roberto Toscano, su La Stampa, prefigura un’azione euro-americana per convincere Riyadh a cambiare registro e costituire così un’alleanza politica contro i nuovi e più pericolosi jihadisti di Stato Islamico da cui possa poi discendere un’adeguata azione militare.
Ma perché iniziative del genere abbiano una qualche speranza di fattibilità sarebbe necessaria una qualche compattezza politica dei paesi del Medio Oriente e l’adesione della Russia. Entrambe queste condizioni sono più parte del problema che della sua soluzione: come abbiamo fuggevolmente ricordato, non esiste nessuna compattezza in Medio Oriente, non solo fra Iran e Arabia Saudita con i relativi accoliti, ma neppure (forse soprattutto) fra i sunniti.
A combattere l’IS in Iraq ci sarebbe disponibilità da parte iraniana, forse del Qatar, ma non certamente da parte saudita. La coalizione anti-Saddam del 1990-91 fruì di una estesa solidarietà araba e del consenso della Russia.
Ma la Russia non è più quella del 1990-91 (e neppure quella delle guerre nei Balcani): errori da parte russa e occidentale hanno fatto sì che ci sia contrapposizione laddove, specialmente nel caso dell’islamismo, poteva esserci convergenza.
In realtà, per il carattere intrinsecamente contraddittorio della scena mediorientale odierna e le impervie condizioni internazionali, non è facile concepire una strategia complessiva verso la regione ed è sicuramente sbagliato immaginare interventi militari di grande scala o grandi alleanze politiche senza avere alle spalle quella stessa strategia.
Che fare? Per ora, occorre tenere i nervi a posto e sostenere la dottrina di Obama: contro-terrorismo, appoggi politico-militari laddove è possibile e pressioni diplomatiche affinché si rafforzino quei pochi paesi, come l’Iraq, che (a differenza del regime siriano) hanno un qualche orizzonte democratico.
Nel più lungo termine vanno ricostituite le condizioni politico-diplomatiche perché venga meno la paralisi attuale: sarà opportuno ritrovare un rapporto funzionale dell’Occidente con la Russia e revisionare le alleanze in Medio Oriente premiando l’aggregazione nazionale su quella settaria e la modernizzazione democratica sull’autoritarismo.
Prospettive molto lontane, ma bisogna cominciare, convincendosi una volta per tutte che il “fardello” dell’Occidente è un’idea morta per sempre.
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