Russia, partner e minaccia della Nato
Non a caso Kiev è stata la prima capitale visitata dal ministro degli esteri dall’inizio della presidenza italiana dell’Ue. Quella in Ucraina è infatti vista da molti Paesi Nato come la più grave crisi in Europa dagli anni ‘90, uno spartiacque che probabilmente continuerà a segnare per anni i rapporti con Mosca e che è bene affrontare con un approccio di lungo periodo.
Una situazione differente rispetto a quella del 2008, quando dopo la guerra lampo in Georgia il conflitto nel Caucaso è tornato in qualche modo “congelato”, ed i rapporti con il Cremlino sono ripresi “business as usual”.
L’Ucraina è un grande paese ai confini con Ue e Nato, centrale tanto per lo spazio geopolitico russo quanto per la sicurezza europea – non solo energetica – e la situazione di instabilità e conflittualità in loco potrebbe continuare.
Risposta Nato alla Russia: rassicurazione e sanzioni
Nel breve periodo, la risposta Nato alla crisi in Ucraina – che comunque ha colto di sorpresa l’Alleanza – si è articolata su quattro direttrici complementari.
In primis le sanzioni ai russi, la sospensione di tutte le cooperazioni operative con Mosca – dal training delle forze russe per attività di contrasto al narcotraffico, all’iniziativa Cooperative Air Space sul monitoraggio congiunto dei voli civili in funzione anti-terrorismo.
Al contempo però, i paesi Nato dell’Europa orientale sono stati rassicurati, attraverso il rafforzamento del pattugliamento aereo dei paesi baltici e l’incremento di esercitazioni congiunte con relativa accresciuta presenza militare sul fianco est dell’Alleanza – seppur temporanea.
In aggiunta, la Nato ha aumentato la cooperazione con le forze armate ucraine, a partire dal training, facendo anche un appello a tutte le parti in conflitto, ma soprattutto alla Russia, per de-escalare la crisi. Il tutto mantenendo aperto il dialogo politico con Mosca, tramite riunioni del Consiglio Nato-Russia convocate su richiesta dei paesi partecipanti al medesimo.
Quali frutti ha portato tale risposta nel breve periodo? Difficile dirlo, per due motivi. Il primo è che il ruolo della Nato nella crisi è secondario rispetto a quello dell’Ue, che ha avuto maggiori responsabilità nelle fasi precedenti le ostilità e tuttora ha maggiori strumenti a sua disposizione per far pressione su Mosca, a partire dalle sanzioni economiche.
Il secondo motivo è che il probabile effetto sul calcolo strategico russo, nella direzione di una moderazione delle mire di Mosca, dell’impegno Nato sulla credibilità dell’articolo 5 del Trattato di Washington – difesa collettiva – e sul sostegno ai partner ucraini, non può essere dimostrato. Di certo però le misure prese hanno avuto l’effetto positivo di rassicurare gli Alleati che legittimamente si sentivano più minacciati, dal Baltico al Mar Nero, e di renderli quindi più disponibili a cercare una soluzione politica con Mosca.
Falchi e colombe Nato ripensano i rapporti con la Russia
Di fronte all’annessione della Crimea, al conflitto strisciante in varie province ucraine e al rischio contagio in Moldova, la Nato ha più che mai bisogno di una politica non solo e non tanto verso l’Ucraina e lo spazio ex sovietico, ma verso la Federazione russa.
Non a caso gli Alleati stanno discutendo cosa fare del Founding Act dei rapporti tra l’Alleanza e Mosca del 1997 e degli Accordi di Pratica di mare che nel 2002 hanno istituito il Consiglio Nato-Russia. Discussione che vede la tradizionale dialettica tra i “falchi” maggiormente preoccupati della strategia di Putin, e le “colombe” che insistono sul dialogo politico con Mosca, con ovvie ripercussioni sull’agenda del prossimo summit Nato.
Anche se il paragone con la Guerra Fredda è sbagliato – in quanto la Russia non costituisce oggi una alternativa politica, militare ed economica all’Occidente, impegnata in una lotta totale per l’egemonia mondiale – è giusto chiedersi se la Russia può essere al tempo stesso un partner e una minaccia per i paesi Nato. La risposta, per quanto paradossale, è sì.
Nuovo approccio al contesto multipolare
Non è forse il Pakistan un partner indispensabile dell’Alleanza per la stabilizzazione dell’Afghanistan e una minaccia al medesimo in quanto sostenitore di gruppi ribelli? Non è forse l’Arabia Saudita un partner dell’Occidente e uno stato colluso con il terrorismo islamico? Non è forse la Cina un interlocutore cruciale su vari dossier e la “major security challenge” per gli Stati Uniti e alleati come il Giappone (si vedano i documenti americani sul Air-Sea Battle)?
L’Iran non sta forse passando da nemico a partner, come alcuni anni fa era accaduto alla Libia di Muammar Gheddafi e alla Siria di Bashar al-Assad prima di essere di nuovo inseriti tra i “cattivi”?
Nell’odierno contesto multipolare, l’approccio basato sulla distinzione tra amici e nemici, buoni e cattivi, pur applicandosi – in positivo – a quella comunità di valori e di interessi costituita sostanzialmente dai membri di Nato e Ue e da pochi loro alleati sparsi per il mondo – l’Occidente – non è una strategia vincente verso un numero crescente di stati e potenze regionali.
Attori con cui gli occidentali devono piuttosto rapportarsi attraverso un mix di deterrenza e dialogo, competizione e cooperazione, recuperando anche le lezioni apprese durante la Guerra Fredda prima della cosiddetta “fine della storia”. Una sfida per l’Occidente che è politica, strategica, e prima ancora culturale. Non solo la storia non è finita, ma si è fatta dannatamente più complicata.
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