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La guerra civile in Iraq e Siria

Obama deve scegliere una strategia efficace

8 Lug 2014 - Francesco Bascone - Francesco Bascone

La reazione misurata alla caduta di Mossul e delle altre città irachene, annunciata dalla Amministrazione Obama, è – prima facie – saggia; ma l’applicazione concreta appare tuttora vaga, e l’efficacia quanto meno dubbia.

In Iraq ci si è lasciati cogliere di sorpresa dalle conquiste territoriali dell’Isil, dal suo successo nell’assicurarsi l’appoggio della parte più combattiva degli ex-baathisti, e dalla inefficienza, codardia e corruzione dell’esercito addestrato dagli americani.

A questo punto è comprensibile, anzi condivisibile, la riluttanza a spedire per la terza volta in un quarto di secolo truppe di terra in Mesopotamia, a caricarsi di un nuovo Afghanistan. Ma nessuno può illudersi che qualche centinaio di istruttori e special units basti per rovesciare le sorti del conflitto.

Verso una tripartizione ad alto rischio
Nella migliore delle ipotesi (ma l’ottimismo può essere il criterio-guida per una strategia in un settore assolutamente vitale?) potranno, con l’aiuto di droni e forse operazioni aeree tradizionali, bloccare l’avanzata dell’Isil verso la Giordania, mentre la mobilitazione di milizie popolari sciite potrà impedire la conquista di Baghdad, o almeno dei quartieri sciiti della capitale, e del Sud del Paese, e i curdi manterranno il controllo dei pozzi petroliferi del Nord.

Si delineerebbe così quello scenario di tripartizione dell’Iraq, cui secondo il New York Times Washington potrebbe rassegnarsi, e che anzi fu proposta nel 2006 dal vicepresidente Usa, Joe Biden, come una soluzione: uno scenario forse tollerabile dal punto di vista del controllo delle risorse petrolifere, ma inaccettabile (oltre che per i prevedibili strascichi di pulizie etniche) per la sicurezza dell’Occidente e, ancor più, dei suoi alleati regionali.

La creazione di una roccaforte jihadista con un vasto territorio a propria disposizione costituisce un grave pericolo per il mondo intero; ha giustificato gli interventi in Afghanistan nel 2001 e più recentemente in Mali, e richiederà forse nuovi interventi nella regione Sahara-Sahel. Ma nel caso dell’Iraq la minaccia è amplificata dall’entità demografica della popolazione arabo-sunnita e dall’ambizione dell’Isil di estendersi alla Siria e a tutto il Levante.

Ma il rollback richiede alleati
Perciò una politica di containment non sarebbe adeguata: occorre pensare al rollback, per quanto arduo possa apparire. Premesso che Washington non intende, giustamente, mettere “boots on the ground“, e che al-Maliki non compirà il miracolo di una riconquista del Nordovest, previo varo di una generosa politica di riconciliazione verso i sunniti, rimane solo la carta iraniana.

Forse di fronte alla avanzata jihadista verso Baghdad coloro che negli anni scorsi criticavano l’eccessiva polarizzazione sul pericolo emanante dal programma nucleare iraniano e prospettavano, inascoltati, la necessità di preparare la strada ad una partnership strategica con Teheran per stabilizzare sia l’Afghanistan che Iraq e Siria troveranno in futuro maggiore ascolto.

Certo, non è pensabile un’intesa esplicita. Se l’Iran muoverà militarmente contro l’Isil sarà motu proprio, non su richiesta americana. Ma l’importante è che sforzi di fatto convergenti vengano compiuti.

Per la Siria vale un discorso analogo: il consolidamento di una zona controllata dai jihadisti, ora allargata oltre le frontiere, nel territorio iracheno, costituisce un pericolo insostenibile per la regione e per l’Occidente.

Questa situazione è frutto di scelte politiche miopi fatte da Washington e dai suoi proxies. Aver consentito a Arabia Saudita, Qatar e Turchia di destabilizzare il regime di Assad con l’invio di armi e denaro ai qaidisti è stato un errore più grave che quelli di aver smantellato amministrazione ed esercito baathisti dopo la deposizione di Saddam e di aver poi permesso a al-Maliki di “antagonizzare” i sunniti spingendoli nelle braccia dell’Isil.

Urgono scelte strategiche
È dunque ineludibile un serio sforzo per rimediare a questa situazione. Situazione inaccettabile per la sicurezza dell’Occidente, ma anche, non dimentichiamolo, per la quotidiana tragedia di milioni di civili sotto le bombe, sfollati, rifugiati in paesi limitrofi. Si impongono scelte politiche e strategiche coraggiose.

È evidentemente difficile immaginare un’improvvisa inversione di rotta, un’alleanza col dittatore che nel corso del conflitto si è macchiato di orrendi crimini contro la popolazione civile (non diversamente dai suoi avversari fondamentalisti).

Eppure varrebbe la pena di studiare la possibilità di segnalare a Damasco che il nostro nemico è la guerra civile stessa, non quel governo; che verrà rigorosamente arrestato il flusso di volontari, armi e finanziamenti di cui si alimenta quella guerra; che (in cambio) ci si attende dal Presidente Assad una generosa offerta di riconciliazione, con una prospettiva di democratizzazione.

Ciò richiederebbe una buona dose di diplomazia segreta, attraverso quei partner potenziali che sono, piaccia o non piaccia, Mosca e Teheran.

La mossa iniziale di Obama non sembra andare in questa direzione: armare e addestrare elementi “selezionati” della ribellione anti-Assad. A prescindere dal fatto che tali elementi affidabili non sono identificati, questa linea si è già rivelata illusoria dal 2011 in poi: sia perché la demarcazione è sfuggente, sia perché gli aiuti alimentano comunque la guerra civile e rafforzano in definitiva il radicalismo sunnita; e infine perché i destinatari dell’assistenza Usa vengono automaticamente screditati agli occhi degli islamisti.

Resta solo da augurarsi che, dietro lo schermo di questo passo politically correct ma inefficace, i consiglieri di Obama stiano studiando approcci più innovativi, in grado di affrontare di petto, senza accontentarsi di palliativi, il gravissimo pericolo costituito dal consolidarsi di un primo, consistente nucleo del Califfato, con chiare ambizioni di espansione e di jihad globale.

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