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Medio Oriente

Mediatori per Gaza, tutti e nessuno

25 Lug 2014 - Roberto Iannuzzi - Roberto Iannuzzi

L’ennesimo conflitto a Gaza e la successiva difficoltà di giungere a una tregua hanno messo in evidenza sia l’insostenibilità dello status quo nella Striscia che il crescente sovrapporsi delle tensioni regionali.

Israele si trova in un’impasse strategica: in assenza di una piena rioccupazione della Striscia, Hamas difficilmente può essere “ridotto all’obbedienza”, né può essere estirpato senza provocare una catastrofe umanitaria molto più grave di quella a cui stiamo già assistendo.

Embargo su Gaza
Anche se il gruppo islamico palestinese perdesse il potere, a Gaza l’alternativa sarebbe un caos jihadista non meno ostile a Israele. Ciò è inevitabile alla luce dell’insostenibile situazione in cui versa l’énclave palestinese a causa dell’embargo a cui è sottoposta da anni.

Una popolazione di oltre un milione e ottocentomila abitanti è intrappolata in un’esile fazzoletto di 360 km quadrati, reso invivibile dall’inquinamento a dall’assenza dei servizi più elementari.

Per questo l’abolizione dell’embargo e la riapertura dei valichi di frontiera sono al centro delle richieste negoziali di Hamas per giungere a una tregua. Tali richieste sono state però rifiutate, almeno fino a questo momento, non solo da Israele ma in parte anche dall’Egitto, tradizionalmente il principale mediatore fra lo stato ebraico e i palestinesi.

Ostilità regionale nei confronti dei Fratelli Musulmani
L’ostilità egiziana nei confronti di Hamas è motivata dall’affiliazione ideologica del movimento palestinese ai Fratelli Musulmani. Insediatisi nel palazzo presidenziale del Cairo con Mohammed Mursi nell’estate del 2012, essi furono rovesciati un anno dopo proprio dall’esercito guidato dall’attuale presidente Abdel Fattah al-Sisi.

Il nuovo governo egiziano accusa Hamas non solo di complicità con il deposto presidente, ma anche di collusione con i gruppi jihadisti responsabili della destabilizzazione del Sinai.

Agli occhi del Cairo, aprire il valico di Rafah al confine tra Gaza e l’Egitto significherebbe concedere a un nemico libero accesso al proprio territorio.

In questa presa di posizione il presidente al-Sisi gode dell’appoggio dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti.

Questi ultimi, fra l’altro, offrono da tempo ospitalità a Mohammed Dahlan, controversa figura già a capo dei servizi di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) a Gaza, quando nel 2007 scoppiò il conflitto con Hamas che portò alla separazione della Striscia dalla Cisgiordania.

Dahlan ha anche stretti legami con l’esercito del presidente egiziano al-Sisi ed è visto da molti nel Golfo come il potenziale successore di Mahmoud Abbas alla guida dell’Anp.

Il Qatar attore “fuori dal coro”
Dalle monarchie del Golfo, ad eccezione del Qatar, l’ascesa regionale dei Fratelli Musulmani all’indomani delle rivolte arabe fu vista come una minaccia alla loro sopravvivenza. Di conseguenza, sia Riyadh che Abu Dhabi appoggiarono il golpe con cui al-Sisi prese il potere in Egitto nel luglio del 2013.

Lo scorso marzo Arabia Saudita, Emirati Arabi e Bahrein ritirarono i propri ambasciatori da Doha, accusata di ingerirsi nei loro affari interni proprio favorendo la Fratellanza.

Lo stesso Qatar, sostenitore del deposto presidente Mursi, era emerso nei giorni scorsi come un mediatore alternativo all’Egitto, insieme alla Turchia del premier Erdoğan. A differenza del Cairo, sia Doha che Ankara hanno fatto proprie le istanze di Hamas, chiedendo la fine dell’embargo di Gaza.

Il Qatar si è anche offerto di pagare i salari dei circa 44mila impiegati amministrativi del governo Hamas nella Striscia. La transazione è stata bloccata da americani e sauditi.

Ankara e Doha a sostegno di Hamas
In generale, la mediazione di Doha e Ankara ha suscitato tensioni con il Cairo e Riyadh. Il quotidiano al-Sharq al-Awsat, considerato il portavoce ufficiale della monarchia saudita, ha accusato il Qatar di strumentalizzare la questione palestinese e di danneggiare l’Egitto per ricavarsi un proprio ruolo regionale.

Mentre il Cairo ha accusato Qatar e Turchia di voler sabotare la negoziazione egiziana, il premier turco Racep Tayyp Erdoğan ha definito al-Sisi un “tiranno”. Altre sue dichiarazioni di fuoco sono state rivolte contro esponenti del governo israeliano, con l’effetto di ridimensionare nuovamente le possibilità di una riconciliazione fra Turchia e stato ebraico.

In conclusione, Hamas sta godendo dell’appoggio di un asse relativamente inedito, costituito a livello politico da Turchia e Qatar, ed a livello militare dall’Iran, con cui i contatti non si sono mai interrotti del tutto. Questo anche se Ankara e Doha si trovano su fronti opposti rispetto a Teheran nella crisi siriana e in quella irachena.

Tuttavia l’emergere di iniziative diplomatiche in reciproca competizione e il sovrapporsi delle tensioni regionali alle vicende israelo-palestinesi hanno complicato ulteriormente gli sforzi per giungere a un cessate il fuoco a Gaza.

La palla è tornata in campo egiziano, grazie anche a un tardivo intervento americano, nella speranza che ciò potesse portare almeno alla fine dello spargimento di sangue. Resta da vedere se e quando ciò avverrà, e in che termini.

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