Il paradosso energetico dell’Egitto
L’Egitto è terra di paradossi. Politici, con i Fratelli Musulmani spodestati dal capo supremo dell’esercito che loro stessi avevano nominato. Sociali, con i movimenti protagonisti della Primavera araba che sembrano tornati dietro le quinte. Geopolitici, perché per mantenere il buon vicinato con Israele e salvaguardare la stabilità interna lungo la Striscia di Gaza, il Cairo deve tenere sotto controllo Hamas.
E infine energetici, poiché un paese esportatore di gas come l’Egitto rischia di dover iniziare a importare gas proprio da Israele.
Primum vivere
Storicamente secondo produttore di gas in Africa e terzo per riserve, l’Egitto è in prima linea sui mercati energetici attraverso la gestione del Canale di Suez e della Suez-Mediterranean Pipeline, rotte fondamentali per le esportazioni di petrolio e gas naturale liquefatto (Gnl) dal Golfo Persico.
Il Cairo non riesce però a gestire la rapida crescita della domanda interna di gas dovuta all’aumento demografico e ai generosi sussidi al consumo. Accompagnata da un fatale calo della produzione – passata dai circa 70 miliardi di metri cubi nel 2012 ai 50 attuali – la crescita della domanda ha portato al dimezzamento dell’export. Un circolo vizioso che strangola l’economia, riducendo le riserve di valuta straniera e aggravando il deficit di bilancio e quello commerciale.
Le autorità hanno dovuto sacrificare le esportazioni per dirottare parte della produzione verso il mercato energetico interno e ridurre al minimo le interruzioni temporanee di elettricità. I blackout rimangono comunque quotidiani.
Nel 2012, il Cairo ha quindi chiuso i rubinetti verso Israele e Giordania, ufficialmente per insolvenze nei pagamenti da parte della East Mediterranean Gas, proprietario e operatore della pipeline che collega l’Egitto a Israele.
Dallo scorso anno anche l’impianto di liquefazione del gas di Damietta è fermo e più di recente il terminale Segas ha rallentato il ritmo. A gennaio le compagnie energetiche nazionali, la Egyptian Natural Gas Holding Co e la Egyptian General Petroleum Corp sono state poste sotto accusa presso la Corte di arbitrato di Ginevra.
L’alternativa passa da Tamar
Per contrastare questa tendenza, l’azienda energetica statunitense Noble, insieme all’israeliana Delek, ha proposto di inviare in Egitto il gas del Bacino Levantino attraverso lo stesso gasdotto che fino a poco fa rendeva l’Egitto uno dei principali fornitori di Tel Aviv. L’idea è nata in seguito alle scoperte di gas del dicembre 2013 nelle acque profonde del campo Tamar – dove le due aziende sono partner principali di un consorzio di estrazione.
A inizio maggio è stata firmata una lettera di intenti tra Union Fenosa Gas (di cui fanno parte Eni e la spagnola Gas Natural Fenosa), operante nell’impianto di Damietta, e i partner del campo Tamar.
Se nei prossimi mesi alla lettera farà seguito un vero e proprio accordo bilaterale, l’Egitto riceverà da Tamar 68 miliardi di metri cubi di gas nell’arco dei prossimi 15 anni. Un’inversione di tendenza, o meglio di flussi, molto conveniente anche per l’Egitto, visto che la costruzione ex novo di un gasdotto di tale lunghezza costerebbe circa 550 milioni di dollari (contro i 10-15 milioni sufficienti per il progetto).
La questione è ora oggetto di una trattativa bilaterale, ma servirà tempo sia per la formalizzazione dell’accordo che per gli eventuali lavori infrastrutturali. Da considerare poi la necessità di mettere in sicurezza il gasdotto, già in passato oggetto di attacchi nel Sinai da parte di gruppi jihadisti e salafiti, alcuni di matrice qaedista.
Nel frattempo, il governo cerca vie d’uscita dalla crisi energetica mirando ad attirare capitali attraverso la concessione di nuove licenze esplorative per aumentare la produzione di gas.
È stata aperta una gara per 23 blocchi, ma le condizioni fiscali non incentivano l’esplorazione delle riserve in acque profonde e diversi operatori internazionali lamentano costi troppo alti. Anche per questo, gli investimenti diretti esteri nel 2013 sono scesi ad appena tre miliardi di dollari, un terzo del 2011. Il governo deve riformare il sistema dei prezzi del gas per renderli più flessibili, accrescendo gli incentivi per le aziende.
Le sfide di Sisi
È dunque fondamentale mantenere sul proprio territorio le aziende energetiche straniere già operanti in loco, prime tra tutte Bp, Eni, Repsol e Apache, le cui attività sono disciplinate da contratti di ripartizione della produzione (production-sharing).
Queste, però, sono stanche dei ritardi nei pagamenti dell’Egitto, che ha accumulato un debito di 6,3 miliardi di dollari per il petrolio e il gas acquistati per uso domestico. Ad aprile il ministro dell’Energia Ismail Sharif ha voluto rassicurare le compagnie promettendo il pagamento di un miliardo di dollari entro la fine di giugno e di tre miliardi in rate mensili entro il 2017. Alle parole, però, dovranno seguire i fatti.
Per farlo, il Cairo potrebbe intraprendere riforme che prevedono la riduzione dei sussidi. Nel 2012-2013, quelli energetici hanno rappresentato oltre il 20% della spesa pubblica. Così facendo, il governo darà soddisfazione a investitori e organismi finanziari internazionali, ma farà adirare le fasce più disagiate della popolazione nonché gli stessi militari, che nel sistema detengono interessi notevoli. Rischio di tensione sociale, dunque, ma anche di squilibri politici da parte degli stessi sostenitori del neoeletto presidente Abdel Fattah al-Sisi.
La sua solidità è tutta da verificare in un contesto, quello egiziano, in cui l’energia può tornare a essere la chiave di volta di una nuova stagione di dialogo regionale.
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