Con Farage vince Little England
L’attenzione dei media è tutta per l’Ukip – United Kingdom Independence Party – il quale, in un exploit senza precedenti, è riuscito a conquistare il 27,5% dei voti alle elezioni europee e a far eleggere 122 consiglieri comunali.
I conservatori al potere sono stati relegati a un umiliante terzo posto e i loro alleati di governo, i Liberal Democrats, sono stati quasi eliminati dalla scena politica.
Farage in marcia su Strasburgo
Gongolante, l’abile leader di Ukip, l’ex agente di borsa Nigel Farage, ha promesso di “scendere su Strasburgo come una volpe in un pollaio” (evidentemente ignorando il fatto che Goebbels ha usato una metafora identica a Berlino nel 1928, dove ha parlato di ‘lupo’ e ‘pecore’).
Con questa frase Farage si riferiva alle elezioni generali dell’anno prossimo in Gran Bretagna, dove l’Ukip promette di eleggere i suoi primi deputati.
Come tante delle promesse dell’Ukip, anche questa rischia di trasformarsi in un’illusione. Per via del noto meccanismo elettorale britannico infatti, la conquista di una significativa presenza in Parlamento, richiede, oltre che dei due partiti egemonici, una profonda e ampia presenza nel paese.
Questa non potrà mai essere raggiunta con un progetto politico basato solamente su un paio di temi, come la permanenza nell’Ue e il problema dell’immigrazione.
Ukip, successo limitato
A parte il ricambio dei personaggi, rare sono le novità politiche di rilievo nel sistema partitico britannico. È per questo che l’impatto dell’Ukip – che ha ottenuto precisamente il 3,1% dei voti nelle elezioni generali del 2010 – sembra così importante.
Con un’affluenza attorno al 34% è però difficile immaginare come “l’effetto Ukip” possa cambiare lo schema di fondo del panorama politico nazionale nel contesto di un’elezione generale.
In Scozia solo il 33% dell’elettorato ha votato, e l’Ukip si esalta per avere conquistato il 10% dei voti. I nazionalisti – che avevano promesso di eliminare l’Ukip dalla scena scozzese – restano stabili al 29%.
Nell’Irlanda del Nord, con il 25.5% dei voti (più della metà degli aventi diritto) si è riaffermato un altro tipo di nazionalismo: quello di Sinn Fein, il partito politico dell’ex-Ira e l’Ukip è stato ridotto al 3,9%.
I media londinesi non hanno voluto commentare questa apparente anomalia. Inoltre, mentre il Galles ha rispecchiato il voto inglese, una grossa sorpresa è venuta da Londra, dove si è affermato nettamente il partito laburista con 36.7% del voto, confinando l’Ukip al 16.9%.
La City laburista che sorprende
Da tempo gli esperti commentano il lento, ma costante distacco sociale ed economico di Londra dal resto del paese. È come se la City stesse diventando una specie di ‘super-stato’, con interessi, ambizioni e orizzonti cosmopoliti ben diversi dall’Inghilterra “provinciale”.
Il leader laburista David Miliband ne è un degno rappresentate, favorito anche dall’intensa concentrazione dell’industria dei media nella capitale.
Ma la questione dell’immigrazione – tanto cara all’Ukip – fa sentire tutto il suo peso anche qui, dove negli ultimi dieci anni la popolazione bianca e britannica tra i londoners è diventata una minoranza, attestandosi oggi attorno al 45%. Logico quindi che una maggioranza sociale composta di immigrati non avrebbe mai votato per un partito anti-immigrati.
Crisi di identità inglese
Fin dai tempi della guerra contro i Boeri del 1899, le imprese dell’Impero britannico hanno sempre conosciuto un’aperta reazione di rifiuto, una sorta di chiusura mentale per tutto ciò che riguardava la vita dentro i confini della nazione, come una forma di provincialismo militante.
Si tratta della cosiddetta sindrome da ‘Little England’, la piccola Inghilterra auto-sufficiente e del tutto disinteressata alle faccende riguardanti gli stranieri, soprattutto quelli provenienti dall’Europa continentale e non espressamente “white-anglo-saxon”.
Nell’epoca della globalizzazione, (che la parte più attiva della finanza londinese rivendica come una sua invenzione), la crisi di identità che la nazione sta attraversando prende quindi la forma di un istintivo e passionale rifiuto dell’Unione europea e del suo effetto più negativo: l’immigrazione dai paesi dell’Est.
Non è però così ovvio il motivo per cui il Regno Unito (o meglio l’Inghilterra), una società che ha ricevuto ondate di immigrati a partire dagli anni ’50 in poi senza grosse difficoltà, vorrebbe ora bloccare tutto. Forse perché la ripresa economica tanto acclamata dal governo non è in realtà così forte o radicata come si vorrebbe far credere?
Ma vi è anche un altro paradosso nell’affermazione dell’Ukip: la sua strenua difesa della sovranità nazionale cozza palesemente con un recente passato in cui i governi hanno sistematicamente venduto allo “straniero” la gestione di alcuni dei settori più vitali dell’economia nazionale, come gas, luce, acqua, ferrovie, aeroporti, ricerca, sanità etc.
Cameron e suoi offrono infatti ogni forma di incentivo agli investitori stranieri, preferibilmente cinesi, arabi, americani e russi. E su tutto questo l’Ukip non dice una parola.
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