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Medio Oriente

La variabile energetica nell’equazione siriana

13 Set 2013 - Nicolò Sartori - Nicolò Sartori

Secondo alcuni critici dell’interventismo americano, quella in Siria rientrerebbe a pieno titolo tra le cosiddette Resources Wars – ovvero quelle guerre dettate dalla volontà di uno o più attori di impossessarsi o controllare le risorse energetiche (ma, in generale, anche minerali o idriche) possedute in abbondanza da un paese o da una specifica regione. Secondo questo approccio, gli Stati Uniti e i loro alleati – in sostanza – sarebbero pronti a intervenire contro il regime di Assad per mettere le mani sulle riserve di petrolio e gas naturale presenti nel sottosuolo siriano.

In realtà, un’analisi (nemmeno troppo approfondita) delle riserve e dei tassi di produzione di idrocarburi del paese tenderebbe a smentire in modo categorico una tesi simile. Le riserve siriane di greggio ammontano a 2,5 miliardi di barili, lo 0,1% delle riserve globali, mentre la produzione – prima dello scoppio della guerra civile – si attestava sotto i 400mila barili al giorno, lo 0,4% del totale mondiale.

Molto simili sono anche i dati relativi al gas naturale: le riserve siriane ammontano a 300 miliardi di metri cubi – 0,2% del totale globale e metà dell’output annuale russo, con una produzione pre-crisi che si aggirava attorno agli 8 miliardi di metri cubi annui, pari allo 0,2% della produzione globale e più o meno sui livelli della produzione annuale italiana.

È, pertanto, ragionevole ipotizzare un intervento militare per avere accesso a un quantitativo così limitato di risorse energetiche? Pur senza scomodare i fallimentari insegnamenti delle campagne militari contro paesi produttori come Iraq e Libia, la risposta sembra essere decisamente negativa.

Le dinamiche regionali
Allargando l’orizzonte dell’analisi al contesto regionale, la competizione tra i principali attori energetici mediorientali può essere identificata come uno dei motivi dell’escalation della violenza in Siria. In questo contesto, l’obiettivo del potenziale intervento militare sarebbe un cambio di regime e l’instaurazione di un governo non soltanto vicino agli Stati Uniti, ma anche funzionale alla tutela degli interessi geopolitici ed energetici di quei paesi del Golfo storicamente alleati a Washington.

Paesi che, in primis, hanno l’obiettivo strategico di isolare l’Iran nel quadro regionale, privandolo del suo principale alleato e limitandone la proiezione sui mercati energetici globali. Principale oggetto della contesa – in questo contesto – sembrerebbe essere l’Islamic pipeline, il gasdotto che dovrebbe collegare Iran, Iraq e Siria e trasportare 40 miliardi di metri cubi annui di gas naturale della Repubblica islamica alle porte dei mercati europei.

A livello teorico il progetto(in realtà, nonostante i negoziati tra i tre paesi, la sua realizzazione è tutt’altro che definita) andrebbe a scalfire gli interessi strategici del Qatar. Leader globale delle esportazioni di Lng e impegnato sulla carta nella realizzazione di una condotta per trasportare il proprio gas verso la Turchia, il piccolo emirato soffrirebbe l’eventuale competizione del gas iraniano sui mercati europei. In quest’ottica, spiegano alcuni osservatori, si giustifica il supporto di Doha (e in generale dei governi arabi del Golfo) ai ribelli siriani e a un blitz militare americano contro Assad.

In realtà, almeno un paio di obiezioni possono essere sollevate contro questa spiegazione. La prima, di natura generale, riguarda il regime sanzionatorio internazionale al quale è sottoposta l’industria petrolifera iraniana. Anche in caso di realizzazione dell’Islamic pipeline, le pesanti sanzioni che colpiscono il greggio e il gas degli ayatollah renderebbero particolarmente improbabili massicce esportazioni iraniane verso i mercati europei.

La seconda obiezione riguarda il ruolo della Russia, il più grande produttore mondiale di gas e partner energetico privilegiato dei paesi europei. Vien da sé che Mosca avrebbe molto da perdere in caso di realizzazione (e funzionamento) del progetto in questione, il che difficilmente si concilia con il fondamentale supporto economico, politico e militare fornito dal Cremlino al regime di Assad.

Aspetti energetici ai margini
Il legame diretto tra crisi siriana e dinamiche energetiche internazionali resta pertanto abbastanza approssimato. Molto più probabile che l’escalation delle tensioni in Siria sia il risultato di una competizione geopolitica che va ben oltre gli aspetti energetici e che mette in gioco gli equilibri di potenza – tra i diversi attori globali e i player regionali – in un’area di importanza strategica fondamentale e ancora profondamente instabile.

Sempre in quest’ottica, appaiono molto più preoccupanti per gli equilibri energetici – e più adeguati a spiegare la recente crescita dei prezzi del greggio – la violenta transizione politica in Egitto (che mette potenzialmente a rischio il transito per il canale di Suez), il blocco dei terminal per l’esportazione di petrolio in Libia e la continua instabilità nel teatro iracheno.