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Siria, Egitto, Palestina

Rompicapo mediorientale per Obama

30 Lug 2013 - Roberto Aliboni - Roberto Aliboni

Gli sviluppi in Medio Oriente mettono gli Stati Uniti davanti a situazioni e scelte sempre più difficili. Il rientro dei militari nell’arena politica egiziana si è aggiunto al confitto in Siria, mentre è facile rilevare che, nella prospettiva regionale, gli eventi in Egitto non appaiono meno ramificati del conflitto siriano.

Dilemma dell’intervento siriano
Per quanto riguarda la Siria, la conferenza di Ginevra II è stata rinviata. Sembra difficile che questa possa davvero aver luogo e, nel caso, avere successo. Gli occidentali non intendono intervenire e, probabilmente, per buone ragioni. Queste sono state dettagliatamente spiegate nella lettera del presidente del Comitato dei capi di stato maggiore statunitense, generale Marty Dempsey, in risposta alle richieste del senatore Carl Levin, presidente del Comitato delle Forze armate del Senato Usa.

Questo ha preso in considerazione cinque opzioni: addestrare, consigliare e assistere le opposizioni; stabilire una zona di interdizione aerea; limitare i bombardamenti da piattaforme fuori del territorio siriano; controllare le armi chimiche e creare una zona cuscinetto per proteggere alcuni territori all’interno della Siria.

Dempsey ha indicato non solo i costi relativi alla messa in opera di ciascuna di tali azioni – miliardi di dollari – ma ha più volte sottolineato come ognuna di esse comporti il rischio di un coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto. Il Comitato del Senato ha nondimeno approvato l’invio di armi, ma anche qui gli Stati Uniti a suo tempo parlarono di armi non letali e, seppure sia emersa qualche ambiguità, non sembra che abbiano sostanzialmente cambiato parere.

Gli europei hanno preso una decisione interlocutoria che consente a Regno Unito e Francia di inviare armi più appropriate ai bisogni delle opposizioni siriane. Non è chiaro però se e quando lo faranno.

Verdetto europeo su Hizbollah
L’Europa ha poi inserito l’ala militare del partito sciita Hizbollah nella lista delle organizzazioni terroristiche. Non è chiaro in che cosa si concretizzi l’implicita distinzione con l’ala politica, che nella realtà operativa di quel partito non ha molto senso. A seconda di come verrà praticamente gestita questa decisione, potrebbe avere molta rilevanza o quassi nessuna.

Tuttavia, neppure questo passo politico cambia la situazione in Siria. Assad continua nel frattempo a ricevere un pieno appoggio da Russia, Iran e Hizbollah e le sorti militari sul terreno si sono largamente spostate a suo favore. Le opposizioni non intendono andare a negoziare da perdenti e, forse, neppure i loro amici occidentali.

La Siria dunque è un mal di testa per la Casa Bianca che invece di passare si aggrava. La cura per sconfiggerlo non sta a Mosca. I russi probabilmente non intendevano arrivare a questa impasse e contavano su una dinamica di riforma interna del regime, le cui possibilità però si sono indebolite. L’influenza di Mosca sui meccanismi interni è limitata e l’aiuto alla Siria si risolve in rafforzamento del vecchio regime.

Terapia iraniana
La cura sta a Teheran, a patto che gli Stati Uniti abbiano la spregiudicatezza di fare un patto con gli iraniani. Il nuovo presidente Hassan Rowhani assume le sue funzioni il 3 agosto: la maggior parte delle analisi americane spera in una leadership più flessibile, ma questa si manifesterà solo se la Casa Bianca troverà il modo di riconoscere il ruolo regionale iraniano, naturalmente senza perdere la faccia e a fronte di utili contropartite. Se questo non accadrà, il mal di testa siriano resterà. Ci sono però pochissime probabilità che ciò avvenga.

È più probabile che ci sia un successo nei rapporti fra Israele e Palestina. Il Segretario di stato John Kerry si sta occupando in primis di questa questione e ha dato inizio all’ennesimo tentativo di negoziazione tra le parti. Questo servirebbe a rinsaldare i già saldi rapporti americani con i sunniti, senza aprire la necessaria breccia là dove è necessaria, cioè sul fronte sciita.

Scommessa persa in Egitto
L’Egitto, per parte sua, è un mal di testa che da quando è scoppiato nel 2011 non è mai passato. Ora si è addirittura aggravato, visto l’apparente inizio di una seconda transizione politica che riesce difficile definire. Nel corso della passata transizione democratica, l’amministrazione americana ha, da un lato, mantenuto effettivi rapporti con le forze armate e, dall’altro, evitato ogni interferenza nel processo politico, limitandosi a richiami declaratori (sul modello europeo) di fronte alle insensibilità democratiche del presidente Mohammed Morsi, confidando che i Fratelli Mussulmani avrebbero messo sui binari un sistema democratico.

Fallita questa prospettiva, oggi restano con i loro buoni rapporti con i militari, ma senza interlocutori politici interni. Dai giovani ai mubarakiani, passando per i Fratelli musulmani l’idea diffusa è una: gli Stati Uniti sono un nemico o un ostacolo.

Questo è un problema non tanto per la stabilità dell’Egitto, ma per i riflessi regionali politici e di sicurezza. Se, come sembra di capire, la prospettiva è quella di una restaurazione del condominio fra militari e civili che, dopo le illusioni panarabe, si incarna ora nel nazionalismo dell’Egitto “profondo”, il problema non è quello della stabilità ma quello della democrazia e del cambiamento che gli occidentali si aspettavano, al punto di rovesciare le alleanze da Mubarak agli islamisti.

Avevano ragione i russi e Berlusconi che le cose stavano bene com’erano e che la primavera araba è stata un’idiozia? La restaurazione egiziana in corso è un rischio mortale per tutti i germi di cambiamento che si sono manifestati nella regione, a cominciare dalla Tunisia. Quale prospettiva si deve immaginare nei rapporti con il Mediterraneo e il Medio Oriente?

Questo problema generale di prospettiva è rafforzato dal fatto che, mentre in Occidente si guarda con incertezza e contrarietà agli sviluppi in Egitto, in Israele e in Arabia Saudita, negli Emirati Arabi Uniti e nel Kuwait questi sono benvenuti. In Israele, perché ovviamente un ritorno al mubarakismo elimina tutte le incertezze che questo paese ha provato nei due anni passati circa il sistema del Trattato di Camp David. In Egitto però già si levano voci più sinceramente nazionaliste di quelle che si sentivano nel nazionalismo burocratico di Mubarak.

Nei paesi del Golfo, perché i Fratelli Mussulmani hanno un’idea della legittimità del potere che non ammette il tipo di monarchie che vigono nella penisola e quindi un Egitto da loro governato era a termine un nemico non meno pericoloso di quello di Mohamed Ali e Gaamal Abdel Nasser. I salafiti, amici soprattutto dell’Arabia Saudita, hanno contribuito al rovesciamento di Morsi e non mancheranno di trovare un loro arrangiamento con i nazionalisti restauratori.

Stati Uniti e l’Occidente, impigliati nel conflitto sunnita-sciita in Siria, sono ora impigliati nei conflitti inter-sunniti che oggi si riflettono in Egitto. Se Kerry riesce a sciogliere il nodo israelo-palestinese, non contribuirà a risolvere i problemi che suscitano i confitti sciiti – sunniti, ma certo indicherebbe una nuova strada per ritrovare l’amicizia con i restauratori nazionalisti egiziani.

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