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Dopo Mursi

La lezione egiziana

10 Lug 2013 - Giorgio Musso - Giorgio Musso

Quanto sta accadendo lungo il Nilo non si presta a facili letture e gli analisti brancolano tra golpe popolare, colpo di stato, sollevazione popolare e rivoluzione. Mai come in quest’occasione le consuete categorie della scienza politica si rivelano inadeguate. A Washington e nelle capitali europee si è evitato il termine golpe, preferendo “impeachment popolare” o “golpe rivoluzionario”, a riprova, se mai ce ne fosse bisogno, dell’ambiguità della situazione.

Per gli Stati Uniti trovare una definizione appropriata è un problema ancora più spinoso. Una legge obbliga, infatti, l’amministrazione americana a sospendere ogni forma di aiuto non-umanitario a un governo salito al potere con un colpo di stato.

Nello specifico caso egiziano, ciò avrebbe portato al congelamento di aiuti per un ammontare di un miliardo e mezzo di dollari l’anno, l’85% dei quali destinato a coprire il 20% del bilancio dell’esercito. Temendo per la stabilità del paese e in virtù del suo saldissimo rapporto con le forze armate, Washington ha evitato di far scattare la clausola citata, ma ha chiesto il rapido ritorno a una transizione democratica gestita da istituzioni civili.

Salda alleanza
Secondo buona parte dei manifestanti egiziani, gli Stati Uniti sarebbero stati i principali alleati dei Fratelli Musulmani, contribuendo a rallentarne la caduta, ma la realtà è più complessa. Effettivamente nel corso dell’ultimo anno vi è stata da parte dell’amministrazione statunitense un’apertura ufficiale di credito verso la democrazia di stampo islamista incarnata dai Fratelli musulmani.

Allo stesso tempo, si è forse dimenticato troppo in fretta la frase con cui Barak Obama gelò Mohammed Mursi all’indomani delle manifestazioni anti-americane del settembre 2012: “L’Egitto non un alleato, ma nemmeno un nemico”.

Il fulcro della politica statunitense verso il Cairo è stato, ed è tutt’ora, garantire la prosecuzione di una transizione democratica. È difficile pensare che a Washington si preferisca Mohamed Mursi a Mohamed El-Baradei. La realistica presa d’atto dei rapporti di forza ha indotto però gli Stati Uniti a tentare di creare una relazione costruttiva con la maggioranza di turno, mantenendo comunque saldo l’asse portante delle relazioni con il Cairo: l’alleanza con i militari. Una strategia prudente che ha permesso a Washington di preservare i propri interessi in Egitto senza dover scegliere, come in passato, tra il sostegno alla stabilità e la promozione della democrazia.

Amicizie più o meno pericolose
A livello regionale, il fallimento dell’esperimento dei Fratelli musulmani in Egitto consolida ulteriormente il ruolo egemonico conservatore dell’Arabia Saudita, altro caposaldo della politica statunitense. La soddisfazione dei sauditi è duplice: le ambizioni del Qatar, che aveva puntato forte sui Fratelli musulmani, sono state ridimensionate, e l’Iran ha subito uno scacco. Teheran vede infatti sfumare la possibilità di una riapertura delle relazioni diplomatiche con l’Egitto che Mursi stava intraprendendo.

Anche il regime di Omar al-Bashir in Sudan perde un alleato fondamentale. Khartoum aveva infatti accolto Mursi in grande stile per celebrare la ritrovata sintonia dopo il gelo dell’era di Mubarak, prospettando un “asse islamista” lungo il Nilo che aveva suscitato i timori di numerosi governi, da Israele a Etiopia.

Ancora più grave appare la posizione di Hamas, il gruppo islamista palestinese che governa la Striscia di Gaza. Il rapporto tra Hamas e le forze armate egiziane era ai minimi termini già prima del 30 giugno, a causa della persistente instabilità del Sinai. La chiusura del valico di Rafah e la distruzione dei tunnel sottostanti sono un chiaro segnale di come l’esercito egiziano tema azioni di destabilizzazione da parte di militanti islamisti provenienti da Gaza. Le conseguenze di tali misure sulla popolazione civile, tuttavia, rischiano di porre l’Egitto in una posizione molto difficile, imponendo quantomeno un allentamento del blocco.

Se le amicizie pericolose coltivate dai Fratelli musulmani si sono interrotte bruscamente, il colpo più grosso l’ha accusato l’Islam politico che pareva trionfante all’indomani delle rivoluzioni del 2011. Il partito Giustizia e Sviluppo in Turchia ( Akp) e al-Nahda in Tunisia hanno condannato gli sviluppi in Egitto, temendo che potessero incoraggiare le rispettive opposizioni.

Fratellanza maestra
È probabile che quanto accaduto in Egitto induca molti movimenti islamisti a una riflessione sugli errori e le forzature compiuti dalla Fratellanza, che è ancora una volta destinata a fare scuola. La frustrazione di questi giorni può poi alimentare fenomeni di radicalizzazione con potenziali effetti destabilizzanti.

Infine, pochi hanno notato come la presa di posizione forse più dura contro l’intervento delle forze armate egiziane sia stata quella dell’Unione africana, che ha sospeso l’Egitto dall’organizzazione. Tale decisione rientra all’interno di una prassi ormai consolidata: negli ultimi anni misure analoghe sono state adottate nei confronti di Guinea Bissau, Niger, Madagascar e Mali. Il caso dell’Egitto si presenta tuttavia più spinoso perché rischia di indebolire la posizione del Cairo nei confronti dell’Etiopia, proprio mentre è in atto una crisi diplomatica che riguarda la gestione delle acque del Nilo.

Tutto ciò indica che la nuova crisi egiziana può avere ripercussioni serie, e a vasto raggio, sulla stabilità del Medioriente, cambiandone gli equilibri e inducendo gli attori regionali a riconsiderare strategie ed alleanze.

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