Egitto alla resa dei conti
Per alcuni sarà il giorno del giudizio finale. Per altri l’ennesimo flop dell’opposizione che non avrà effetto sulla presidenza dell’islamista Mohammed Mursi. Quello che è certo però è che il 30 giugno le due anime di un Egitto sempre più polarizzato arriveranno alla resa dei conti.
15 milioni contro Mursi
Anche se non sarà il confronto finale, gli islamisti al governo – in primis Mursi che festeggerà il primo anno della sua presidenza – dovranno resistere al blocco di un’opposizione – più o meno compatta – che ha in mano oltre quindici milioni di firme per chiedere il ritiro della fiducia a Mursi.
A raccoglierle è stata la campagna tamarrod – Io mi ribello- nata tra alcuni giovani cairoti che si sono mobilitati sia per strada che nei vicoli virtuali. Nata il primo maggio scorso come un’iniziativa totalmente spontanea, appena ha iniziato a prendere piede, la petizione è stata sottoscritta da diversi leader politici di opposizione che ne hanno fatto una bandiera.
Anche se l’appello firmato dai segnatari della campagna contiene un chiaro riferimento ai procedimenti legali per ritirare la fiducia a Mursi, è difficile immaginare che questo possa davvero accadere. Ciononostante, avvicinandosi al 30 giugno, l’opposizione sembra aver accresciuto le sue fila, compattandosi dietro un’iniziativa che, pur non nascendo come propositiva, può avere impatto sulla transizione.
Crisi acuta
A complicare il post Mubarak è una profonda crisi istituzionale. Tra fine maggio e inizio giugno, la Corte Costituzionale non solo si è rifiutata di firmare la nuova legge elettorale, ma ha anche dichiarato che sia la composizione dell’assemblea costituente che l’elezione della shura, la camera alta del Parlamento, sono avvenute attraverso procedure anticostituzionali.
Per evitare di lasciare il Paese senza alcun corpo legislativo – visto che la camera bassa è stata precedentemente dissolta per le medesime motivazioni – la Corte ha deciso di non sciogliere la shura, ma la sua legittimità, come quella della Costituzione, è sempre più debole.
Proprio mentre gli attivisti raccoglievano le firme per sfiduciare Mursi, il presidente ha fatto una serie di mosse che non hanno di certo alimentato la distensione. È arrivato all’approvazione di una nuova legge sulle organizzazioni non governative che ne limita l’autonomia, ha iniziato un processo di riconciliazioni con importanti figure del vecchio regime, ha fatto un rimpasto di governo aumentando le poltrone degli islamisti e ha nominato 17 nuovi governatori tra cui sette rappresentati del partito della Fratellanza musulmana.
A Luxor la nomina di un membro del movimento islamista radicale della Gama’a al-Islamiyaa ha provocato il ministro del turismo. Temendo le ripercussioni della politica islamista sul settore da lui guidato, soprattutto a Luxor, ha deciso di rassegnare le dimissioni. Per evitare una escalation di proteste, il governatore in questione ha preferito uscire di scena.
Il mondo degli artisti è insorto invece contro le ultime mosse del nuovo ministro della cultura, al punto di occupare il ministero. Sono proprio le scene di violenza viste davanti a questo palazzo governativo, dove sono scoppiati gli scontri tra gli artisti e i sostenitori di Mursi, ad allarmare quanti si preparano alla manifestazione del 30 giugno.
Basta poi fare zapping sui diversi canali egiziani per notare un crescendo di tensione. Durante un festival organizzato dai Fratelli musulmani, uno sheykh salafita ha etichettato i segnatari del tamarrod come miscredenti, dichiarando lecita la loro uccisione. Il tutto in diretta televisiva.
La Chiesa cambia, Washington no
Dopo l’annuncio di una contromanifestazione, sempre il 30, a sostegno di Mursi, a crescere sono state anche le preoccupazioni di quanti temono una deriva settaria. Tra questi vi è il papa copto, Tawdros II, che ha annunciato che riterrà il governo Mursi responsabile di ogni danno ai luoghi di culto cristiani.
Dalla presidenza sarebbe poi partito un messaggio per chiedere al papa di vietare ai copti di unirsi alla manifestazione. Mostrando un cambio di rotta rispetto al suo predecessore, Tawdros II ha però lasciato ai suoi fedeli piena libertà di scelta.
A mettere le mani avanti è stato però il ministero degli interni, che ha, annunciato che qualora i due cortei rivali – islamisti e oppositori – si scontrassero, la polizia non prenderebbe parte agli eventi di strada. Questa mossa potrebbe fare presagire un eventuale ingresso dei militari. Il ministro della difesa ha infatti già annunciato che le forze arate non staranno a guardare “l’Egitto che cade nel tunnel della violenza”.
A intervenire è stata poi la Casa Bianca, che per bocca della sua ambasciatrice al Cairo si è opposta a ogni rovesciamento di Mursi e a un eventuale ritorno dei militari. Pur chiedendo alle due fazioni di arrivare a compromessi che allentino la tensione, per l’ennesima volta Washington si preoccupa di mantenere la stabilità del paese, senza però curarsi della sostenibilità.
La polarizzazione che è montata durante la tormentata transizione non sembra sostenibile e non è da escludere che questa sfoci nell’ennesimo picco di violenza. Se il crescente malcontento registrato dal tamarrod e visibile sui social network si riversasse nelle strade egiziane, Mursi dovrebbe fare mosse incisive per evitare il collasso della dirigenza islamista.
Il 30 però non sarà un test solo per gli islamisti, ma anche per l’opposizione che mostrerà la reale forza dei suoi muscoli. A scrutinio c’è poi la capacità di mobilitazione di petizioni popolari che sul web raggiungono dimensioni straordinarie, ma la cui presa su strada deve essere ancora verificata.
Anche se Mursi a questo giro dovesse scamparla, difficilmente sarà in grado di garantire la stabilità del paese arroccandosi dietro quella democrazia elettorale che lo ha posto alla guida del governo. Una stabilità realmente sostenibile richiede una democratizzazione più completa che scongiuri la dittatura della maggioranza.
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