Strategia anti-turca di al-Assad
Nel pomeriggio dell’undici maggio due esplosioni sono tornate a scuotere lo spettrale confine turco-siriano. Con un bilancio di cinquantuno morti e oltre cento feriti, la Turchia segna il drammatico record di civili colpiti in un solo attentato. Con millimetrico tempismo tra il ritiro dei militanti curdi verso il nord Iraq e la visita del primo ministro Erdoğan al presidente americano, le bombe nella cittadina di Reyhanlı sono l’ennesima prova dell’intricata trama di interessi che si cela dietro il conflitto siriano.
Vicolo cieco
A soli cinque chilometri dal passaggio di Cilvegözü, il più trafficato dai profughi siriani, Reyhanlı si trova nella provincia di Hatay, l’antico Sangiaccato di Alessandretta, storico oggetto di contesa tra Siria e Turchia dopo l’annessione turca del 1939. L’area ospita buona parte dei rifugiati e dei membri dell’opposizione anti-Assad accolti dalla Turchia ed è contro questo appoggio umanitario e logistico-militare che il regime Baathista ha deciso di sferrare l’ennesima, brutale, rappresaglia.
Il monito è chiaro: è in termini di vite civili il prezzo da pagare per la linea politica filo-occidentale e pro-sunnita condotta da Erdoğan fino a questo momento. Damasco non è più disposta ad accettare ingerenze politiche o verbali alla sua infernale guerra civile – se non tirando dentro il vortice l’infedele ex-alleato.
L’identità degli esecutori dell’attentato rivela che la mano invisibile di Assad è ben estesa sul territorio turco. L’intelligence siriana si sarebbe infatti appoggiata su un gruppo turco di matrice marxista-leninista, il Fronte di liberazione del popolo turco (Thkp-c), autore di una feroce campagna di guerriglia negli anni settanta. Il leader del movimento è membro della stessa setta del presidente siriano, i Nusayri.
Ramo degli sciiti alawiti, i Nusayri hanno da tempo espresso forti contrarietà all’emergenza di una potenza sunnita appoggiata dall’Occidente nello scacchiere mediorientale. Erdoğan è infatti da tempo accusato di condurre politiche di ispirazione settaria tanto nei confronti della regione autonoma curdo-sunnita del nord Iraq (il Krg), quanto verso l’Iran sciita, proponendosi come leader di un asse sunnita a livello regionale.
In tutta risposta, tra il due e il tre maggio, le milizie di Assad si erano già rese autrici del terribile massacro di più di 400 civili nei villaggi sunniti di Bayda e Bayniya, nella zona costiera della Siria settentrionale.
L’intraprendenza politica di Erdoğan a livello regionale e nel sostegno all’opposizione ad Assad rischia di trascinare anche la Turchia nel gorgo della violenza siriana. Impegnato nella risoluzione della storica questione curda e privo di un solido appoggio occidentale, il governo turco non può sostenere l’eventualità di un conflitto diretto. appare Alla Turchia non romane dunque altro che l’alleato americano.
Silenzio occidentale
Ankara ha domandato a più riprese, ma senza successo, l’ intervento militare di Washington. Rassicurata dal dislocamento di batterie di missili Patriot sotto egida Nato lungo il confine, la Turchia si trova totalmente impreparata ad un possibile attacco chimico-batteriologico sul fronte siriano.
La storia si ripete, con gli stessi attori ma diversi scenari: mentre durante il conflitto iracheno del 2003 Erdoğan rifiutava le basi americane sul suolo turco, oggi è Ankara a chiedere a gran voce un intervento che tarda ancora ad arrivare. Se allora l’America aveva dubbie prove circa le armi di distruzione di Saddam Hussein, oggi le conferme sulle armi chimiche di Assad sembrano non mancare. La linea di Obama, tuttavia, è ben lontana da quella di Bush.
Mettere un dito nell’esplosiva polveriera siriana significherebbe fare saltare fragili reti ed equilibri stratificati nei decenni post-guerra fredda. La Russia, la cui unica base navale nel Mediterraneo si trova a pochi chilometri dalle coste del massacro di Baniya, cerca la strada del dialogo con Obama. La lenta e silenziosa diplomazia, in atto da mesi, sembra finalmente convergere sugli accordi di Ginevra, firmati nel giugno scorso ma mai implementati.
L’intesa prevedeva l’appello ad un cessate il fuoco, la formazione di un governo di transizione che includesse le forze di opposizione, e l’organizzazione di elezioni parlamentari. Putin e Obama prevedono un incontro decisivo nel corso del mese, e da questo confronto dipende gran parte del destino e dei fragili equilibri siriani.
La Turchia di Erdoğan, nel frattempo, rinnova la richiesta di istituire una zona cuscinetto nell’area di Hatay, vittima di già tre attacchi dallo scorso autunno, e si prepara a chiedere ad Obama l’imposizione di una no-fly zone sui novecento chilometri di confine condiviso. Nella complessa trama di interessi che si cela dietro il conflitto si gioca il futuro di pace della Turchia e parte dello stesso delicato rapporto tra oriente ed occidente.
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