La chimera di uno stato per due popoli
Un reality show, intitolato “The President” e realizzato dall’Agenzia Ma’an News, sta scandendo in questi giorni la vita di molti giovani palestinesi. Mille di essi – sparsi tra Cisgiordania, Israele e Striscia di Gaza – si stanno sfidando a colpi di idee e dialettica per diventare “The President”.
Al di là del valore simbolico dell’iniziativa, organizzata in tempi più che mai cupi per le leadership palestinesi, il programma sta ancora una volta confermando la “sete di autodeterminazione” che anima la vita delle nuove generazioni di palestinesi, nonché i pericoli relativi alla possibile frustrazione di questa ambizione: “Se i negoziati [con Israele] non dovessero funzionare, – ha spiegato tra gli altri il 21enne di Halhul Sewar Salman, uno dei tredici finalisti al momento ancora in gara – in quanto ‘Presidente’ avrei diritto a creare uno Stato palestinese tramite la resistenza”.
A dispetto di quanto finora sostenuto, un numero contenuto, ma crescente, di palestinesi e israeliani indica la creazione di un unico stato per i due popoli come la sola soluzione al momento percorribile. Tale punto di vista è sovente sostenuto da persone che non vivono dall’interno la realtà della controparte; dunque palestinesi che non possono vivere in Israele e israeliani impossibilitati, o disinteressati, a conoscere la realtà dei territori palestinesi.
Un’ampia percentuale di palestinesi non ha infatti mai incontrato un solo israeliano, soldati esclusi. Una larga maggioranza di israeliani non ha mai visto, se non in televisione o durante la leva militare, la barriera che Israele ha unilateralmente dislocato, inglobando il 16 percento dei territori palestinesi.
Utopie
In una realtà in cui uno dei due protagonisti è esponenzialmente più potente dell’altro, politicamente, economicamente e culturalmente, uno stato unico si trasformerebbe ben presto in uno strumento legalizzato per “soffocare” la parte più debole.
Mutatis mutandis, l’idea di creare uno stato binazionale fallì sul nascere già ai tempi di Brit Shalom (fine anni Venti del XX secolo), quando l’attitudine delle persone sarebbe stata in teoria ben più “malleabile” rispetto ad oggi. Uno stato unico richiederebbe l’assenza di un marcato disequilibrio tra le parti in causa. Sarebbe inoltre problematico nella misura in cui legittimerebbe ex-post gli insediamenti costruiti in modo unilaterale nei territori palestinesi.
A ciò si aggiunga che le possibilità che le autorità israeliane possano manifestare un sia pur flebile interesse nel dar vita a uno stato unico, o anche solo ad annettere i territori palestinesi, sono pressoché inesistenti. Lo status quo garantisce lo sfruttamento dei territori palestinesi, nonché il controllo di un’area considerata strategica per la difesa, senza richiedere “scomode responsabilità”.
In questo senso, i territori palestinesi rappresentano per molti aspetti un unicum. In altri contesti come ad esempio il Tibet, l’Abcasia, la Repubblica Turca di Cipro del Nord, il Sahara occidentale e il Turkestan orientale, le “potenze occupanti” hanno inglobato i rispettivi abitanti come propri cittadini: con tutte le garanzie, i diritti e le problematiche che ciò comporta.
Unica via
Solo la nascita di un vero Stato palestinese su Cisgiordania e Striscia di Gaza (uno Stato che ovviamente richiederà scelte non semplici, come la volontà o meno di creare una moneta palestinese), con Gerusalemme est capitale (non Abu Dis, ma Gerusalemme est), con la rinuncia definitiva da parte palestinese a ogni velleità di ritorno della quasi totalità dei profughi all’interno dei confini israeliani e a ogni atto di terrorismo, con lo smantellamento e/o la ridefinizione degli insediamenti in Cisgiordania (i coloni che decideranno di rimanere nello Stato palestinese dovranno essere sottoposti ai medesimi diritti/doveri a cui sono soggetti i palestinesi con cittadinanza israeliana), nonché con la garanzia alla sicurezza e alla legittimità dello Stato d’Israele, potranno fornire le fondamenta per una pace sostenibile.
Si tratta, da entrambe le parti, di rinunce dolorose. Ma è realisticamente l’unica strada percorribile.
“Cuore del conflitto”
A inizio maggio, nel corso di una riunione con alcuni esponenti del ministero degli esteri israeliano, il premier Benjamin Netanyahu ha notato che “il cuore del conflitto è rintracciabile in Acre, Jaffa e Ashkelon e ciò non può essere omesso”.
Il riferimento era all’intimo desiderio covato da gran parte del popolo palestinese di riprendere possesso di luoghi legati indissolubilmente alla loro storia. Citate nei geroglifici egiziani vecchi di quattromila anni con i nomi di ‘Akka (Akkā in arabo, ‘Akko o Acre in ebraico) e ‘Asqalana (‘Asqalān in arabo, Ashqelon in ebraico), tali città, così come diverse altre (Gaza, Gerico, Megiddo ecc.), preservano nella lingua da sempre utilizzata dagli arabi di Palestina i loro idiomi originali.
Riconoscere il prezzo pagato nel corso del Novecento dalle genti che su esse vivevano – e in parte ancora vivono – non dovrebbe rappresentare “il cuore del problema”, bensì fornire ulteriori stimoli a quanti ritengono vitale che essi possano autodeterminare il proprio futuro su quanto rimasto di ciò che al-Dīn al-Ramli, influente giurista islamico nato e cresciuto a Ramle, definì nel Seicento “Filastīn bilādunā” (“Palestina terra nostra”).
I finanziamenti statali garantiti agli insediamenti in Cisgiordania, cresciuti in maniera esponenziale durante l’ultimo governo Netanyahu, si pongono in profondo contrasto con tale presa di coscienza.
Ascesa della “lose-lose situation”
La leadership di Hamas – al potere senza alcuna legittimità elettorale (come l’Autorità nazionale palestinese in Cisgiordania) nella Striscia di Gaza – è ancora lontana dall’accettare la legittimità dell’“altro”, nonché il principio che solo il diritto internazionale, accompagnato da forme di resistenza non violenta, possa creare le condizioni per una svolta: un radicalismo – pagato a caro prezzo dalla gente di Gaza – più che mai funzionale a rafforzare le componenti più oltranziste della controparte israeliana.
Sulla “sponda opposta”, la mancanza di un pieno riconoscimento di uno status collettivo palestinese su un suolo delimitato e dotato di sufficiente continuità, non può che continuare a ripercuotersi sulla stessa società israeliana, con effetti controproducenti per ognuna delle parti in causa.
Uno degli effetti più evidenti è che ai giorni nostri esistono quattro distinti gruppi di palestinesi, tutti con uno status differente: i palestinesi nella Striscia di Gaza, quelli in Cisgiordania, i “residenti permanenti” di Gerusalemme est e gli arabo-israeliani. Un interlocutore “frammentato” è tanto più debole quanto meno affidabile.
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