Verso la missione internazionale in Mali
Tra il 26 e il 27 marzo i capi di stato maggiore dei paesi membri della Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas) si sono riuniti a Yamoussoukro (Costa d’Avorio) per elaborare alcune proposte in vista dell’avvio della “missione di pace” dell’Onu in Mali, che da luglio potrebbe subentrare alle truppe franco-africane. I paesi africani insistono sulla necessità che i militari dell’Onu possano far ricorso all’uso della forza.
Il Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha recentemente dichiarato al Consiglio di sicurezza che per il Mali sono necessari almeno 11.200 caschi blu. La decisione del Consiglio è attesa per metà aprile, mentre nel paese africano rimane incombente il rischio che le milizie islamiste riguadagnino il controllo del territorio, soprattutto nelle città principali. La proposta di avviare una missione di stabilizzazione sotto l’egida dell’Onu era già stata avanzata a gennaio dai presidenti di Francia e Stati Uniti.
Dopo il ritiro della missione francese, Parigi continuerà comunque a prestare sostegno nei settori dell’aviazione, delle forze speciali, della logistica, e della lotta al terrorismo, anche in virtù dei rilevanti interessi strategici ed economici nel Sahel (le centrali nucleari francesi, ad esempio, si alimentano dalle miniere di uranio vicino al Niger).
Anche la missione Ue di addestramento dell’esercito del Mali lanciata a metà gennaio dal Consiglio europeo (European Union Training Mission, Eutm) rimarrà nel paese per almeno altri 13 mesi. La missione porterà in Mali fino a 450 uomini, di cui 200 istruttori, per un costo complessivo di 12,3 milioni di euro. Secondo quanto dichiarato dall’ex ministro degli esteri italiano, Giulio Terzi, l’Italia non sarà coinvolta in situazioni di aperto conflitto, e parteciperà inviando “fino a 24 uomini”.
La stabilizzazione sembra dunque ancora un miraggio per il Mali, dove l’impegno internazionale potrebbe trascinarsi a lungo e in forme diverse. Da gennaio i gruppi terroristici legati ad al Qaeda che stavano avanzando verso Bamako sono stati estromessi dai centri settentrionali più popolati. Rifugiatisi nelle regioni montagnose del Kidal (Mali del nord), continuano però a minacciare la stabilità interna e tutto l’equilibrio regionale.
Cortina tra nord e sud
Con l’operazione Serval il Presidente francese Hollande ha voluto impedire lo sviluppo di un “Sahelistan” (nuovo Afghanistan) con gravi ripercussioni sugli equilibri nordafricani. Secondo quanto dichiarato dal ministro della difesa francese Jean-Yves Le Drian, l’intervento francese è ora passato dalla fase di “emergenza e liberazione” a quella di “messa in sicurezza e stabilizzazione”.
I quattromila soldati francesi sono supportati dalla Forza internazionale di sostegno al Mali (African-Led International Support Mission, Afisma), nell’ambito della quale la maggior parte delle truppe sono fornite dai paesi membri dell’Ecowas e dal Chad (sette mila soldati). Tale organizzazione, accorsa in sostegno delle truppe locali poco e mal armate, ha consentito di compiere attacchi specifici, facendo retrocedere gli estremisti al di sopra di Timbuctu e spingendoli verso i confini con la Mauritania, l’Algeria e la Libia (Kidal).
La solidarietà instauratasi tra ribelli islamisti e gruppi regionali interessati ad alimentare l’instabilità, ha indotto Parigi a rinviare la fine delle operazioni. Inizierà a ritirare gradualmente le sue truppe solo a fine aprile ma nel frattempo, dando soddisfazione alle richieste del premier Diango Cissoko, ha richiesto il consenso del Parlamento per un prolungamento della missione francese.
Il governo ad interim del Mali, dal canto suo, dopo aver richiesto l’intervento internazionale, ha promesso di aprire una stagione di negoziati con i gruppi ribelli non estremisti e di indire le elezioni presidenziali il 7 luglio e legislative il 21. Il rischio di peccare d’ottimismo con date così imminenti è tuttavia molto alto. Anche i paesi intervenuti al fianco di Bamako perderebbero di credibilità in caso di un’eventuale escalation e aggravamento dei problemi di sicurezza.
In tale contesto il governo di Bamako non può restare a guardare. Per liberare il Nord dagli islamisti in modo duraturo sembra necessario avviare un dialogo tra Bamako e le fazioni Tuareg – minoranza sufi che da decenni lotta per l’indipendenza del Mali del nord, avversa però al terrorismo – tra cui i combattenti filo-francesi del Movimento per la liberazione dell’Azawad (Mnla), del Movimento islamico dell’Azawad (Mia) e di organizzazioni Tuareg non-jihadiste.
Lo ammette lo stesso parlamento maliano, che a fine gennaio ha adottato all’unanimità la Road Map per la transizione che prevede elezioni democratiche entro giugno e negoziati con rappresentanti del nord, ma anche con “gruppi armati non terroristici che riconoscono l’integrità territoriale del Mali”.
Sicurezza regionale
Le milizie scese in campo contro l’esercito del Mali sono eterogenee. Il movimento dei Tuareg è poco coeso, e molti membri si sono uniti a gruppi vicini ad al-Qaeda che perseguono un’agenda islamista, come Ansar Dine, al-Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqim, composto da guerrieri di diverse nazionalità nordafricane), il Movimento per l’unità e la jihad in Africa occidentale (Mujiao, che mira a estendere la Jihad in tutta la regione) o il Battaglione di Sangue.
Come confermano diversi episodi degli ultimi mesi, il rischio terrorismo presente in Mali può estendersi su tutta l’area. Il fatto che alcuni gruppi estremisti del Mali abbiano già preso contatto con il Boko Haram nigeriano, fa temere l’adozione di un’agenda transnazionale.
Sul piano pratico, l’attentato compiuto da Aqim alla facility di gas algerina Tingantourine a In Amenas (Algeria del sud), è stato ad esempio giustificato dall’ex leader del gruppo Mokhtar Belmokhtar – ucciso dalle forze del Chad lo scorso 2 marzo – come “una risposta alla crociata francese in Mali”.
Tra i paesi vicini al Mali, solo l’Algeria si è sempre proclamata contraria a un intervento straniero, pur avendo fallito nei tentativi di gestirne la crisi. Prevale infatti il timore di una fuga di militanti sul suo territorio.
Altri, in particolare Libia, Nigeria, Burkina Faso, Benin e Niger, a elevato rischio contagio, considerano invece l’intervento internazionale utile ad arginare la minaccia islamista. Non è un caso, del resto, se Parigi ha chiesto ai propri cittadini di lasciare anche il nord del Camerun, e sconsiglia viaggi in Nigeria.
Il Sahel è dunque uno scacchiere ad alto rischio, dove estremisti jihadisti svolgono un ruolo di primo piano. In tutta la regione soggetti diversi sono accomunati da una lotta contro l’occidente o la democrazia.
Molte variabili fanno pensare che la crisi del Mali durerà ancora a lungo, con possibili ripercussioni regionali. Una verità che non giova di certo ai paesi che sono intervenuti con un programma di “breve termine”. E forse questo è uno dei motivi per cui, rispetto a qualche mese fa, la visibilità mediatica della missione militare francese è stata ridimensionata.
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