IAI
Nuova legge sulla cooperazione

Luci e ombre tra Italia e Corte penale internazionale

3 Gen 2013 - Marina Castellaneta - Marina Castellaneta

A tredici anni dalla ratifica dello Statuto della Corte penale internazionale (Cpi), l’Italia ha adottato, con ingiustificato ritardo, le norme per consentire un’effettiva cooperazione con gli organi della Corte. Almeno nelle intenzioni. In realtà, infatti, il testo approvato in via definitiva il 4 dicembre, tralascia in modo sorprendente la parte relativa all’introduzione nell’ordinamento italiano delle fattispecie penali previste nello Statuto. Considerando i tempi lunghissimi per l’approvazione delle nome interne sulla cooperazione giudiziaria, l’esito avrebbe dovuto essere diverso.

Il rispetto degli obblighi internazionali, invece, è realizzato a metà proprio a causa del mancato inserimento di alcuni reati contemplati nello Statuto ma non nell’ordinamento penale italiano, nel quale manca, solo per fare un esempio, il reato di tortura. Nessun dubbio che sarebbe stato non solo preferibile, ma anche necessario per il pieno rispetto degli obblighi internazionali, agire come ha fatto la Francia, che ha modificato il codice penale per inserire o modificare alcuni crimini, inclusi quelli contro l’umanità, o il Regno Unito.

Modalità di cooperazione
Il meccanismo di cooperazione della nuova legge si basa su una ripartizione di competenze tra autorità politica e giudiziaria. Al ministro della giustizia è affidato il compito di autorità centrale per la cooperazione, con una funzione amministrativa e politica, mentre alla Corte di appello di Roma sono attribuite le competenze di carattere giudiziario.

La cooperazione è articolata in tre fasi: la prima riguarda l’assistenza al procuratore della Cpi per lo svolgimento di attività istruttorie sul territorio italiano; la seconda la fase della consegna e la terza l’esecuzione dei provvedimenti della Cpi, nei quali sono inclusi quelli che dispongono pene detentive, pecuniarie, misure patrimoniali e ordini di riparazione alle vittime.

L’esecuzione della cooperazione con riguardo alla prima fase si basa sulla trasmissione delle richieste formulate dalla Cpi al ministro della giustizia che, a sua volta, le trasmette al procuratore generale della Corte di appello di Roma. Nel caso di attività di indagine o di acquisizione delle prove, sarà cura del procuratore generale della Corte di appello procedere all’esecuzione.

È previsto che i giudici e il procuratore della Cpi assistano all’esecuzione degli atti con la possibilità di «proporre domande e suggerire modalità esecutive» (art. 4, par. 4), secondo un modello già tracciato per l’adeguamento dell’ordinamento italiano allo Statuto del Tribunale per l’ex Jugoslavia.

Tuttavia, mentre in detta legge era consentita la possibilità che gli atti richiesti fossero attuati osservando le forme espressamente richieste dal Tribunale internazionale ad hoc, detta deroga non è contemplata in rapporto agli atti richiesti dalla Cpi. Una scelta che appare giustificata dal fatto che il modello dei rapporti tra Stati e Cpi è basato sulla complementarità e non sulla primazia che invece caratterizza i tribunali ad hoc istituiti dal Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Indagati, imputati e condannati
La cooperazione sull’ iter per la consegna di indagati, imputati e condannati riguarda sia la fase relativa all’esecuzione di un mandato di arresto ai fini della custodia cautelare, sia per l’esecuzione della pena.

Entrambe le fattispecie presentano problemi di coordinamento con disposizioni dell’ordinamento italiano. In particolare, con l’art. 13 del codice penale in base al quale l’estradizione non può essere concessa se il fatto che è oggetto di estradizione non è previsto dalla legge italiana e da quella straniera come reato (principio della doppia incriminazione).

Il mancato inserimento delle fattispecie criminali nel nostro ordinamento potrebbe ostacolare, così, la consegna anche perché non è indicata alcuna specifica deroga al principio che è da ascrivere tra quelli fondamentali del nostro ordinamento.

A ciò si aggiunga che se alcuni casi di rifiuto alla consegna appaiono del tutto in linea con lo Statuto, desta qualche perplessità la possibilità che lo Stato possa rifiutare la consegna nell’ipotesi in cui la richiesta contenga «disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato». Si tratta, infatti, di un richiamo vago, che se applicato in modo estensivo nuocerebbe ai rapporti di cooperazione tra Corte e autorità italiane, e ciò anche con riferimento all’indicato art. 13 c.p.

Con riguardo alla custodia cautelare compete al procuratore generale della Corte di appello di Roma effettuare la richiesta arrivata dall’Aja. Nell’ipotesi in cui il destinatario del provvedimento richieda la libertà provvisoria, le norme dello Statuto della Cpi si integrano con quelle del codice di procedura penale. Sull’istanza deciderà, con ordinanza, la Corte di appello di Roma, che può rifiutare la consegna se sia stata già pronunciata una sentenza definitiva nei confronti della stessa persona e per lo stesso fatto.Per quanto riguarda scontare la pena nei casi in cui sia indicato lo Stato italiano come luogo per la detenzione, la legge prevede una procedura di riconoscimento della sentenza della Cpi da parte del ministro della giustizia, attraverso un’istanza al procuratore generale presso la Corte di appello, escludendo, quindi, l’automaticità degli effetti della pronuncia. Non sono escluse condizioni ostative al riconoscimento.

Detenzione
Se in talune disposizioni la legge italiana ha cura di richiamare i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, la possibilità di applicare il regime penitenziario di cui all’art. 41-bis della legge n. 354/1975 previsto per lo più per reati di stampo mafioso, potrebbe destare non poche preoccupazioni sotto il profilo della tutela dei diritti dei detenuti. Ed invero, una simile disposizione non trova riscontro in altri ordinamenti e, in ragione del particolare regime di isolamento, potrebbe apparire in contrasto con taluni atti internazionali a tutela dei diritti umani.

La Corte europea dei diritti dell’uomo, d’altra parte, in diverse occasioni, pur non equiparando il regime del 41-bis alla tortura, ha chiesto modifiche sulle modalità di esecuzione in ragione del severo regime di isolamento dei detenuti e dei tempi lunghi per l’accertamento dei requisiti idonei a giustificare il mantenimento del carcere duro.

È da rilevare, inoltre, che l’articolo 17 che si occupa di tale regime dispone un obbligo di informazione alla Cpi, ma nulla prevede sulla conseguenze derivanti dall’eventuale opposizione della Corte.

A ciò si aggiunga che, in via generale, la condizione della vita dei detenuti nelle carceri italiane a causa del sovraffollamento è stata, in più occasioni, considerata contraria alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo da parte della Corte di Strasburgo. Situazione che rende difficile per un organo come la Cpi accettare che un condannato sconti la pena in un paese in cui vi siano rischi di trattamenti disumani e degradanti. Forse per evitare in anticipo simili obiezioni, la legge dispone che le pene possano essere scontate in una sezione speciale di un istituto penitenziario o in un carcere militare (art. 20).

Per l’esecuzione degli ordini di riparazione, la competenza è attribuita alla Corte di appello di Roma che provvede alla confisca di profitti, beni o averi nonché alla confisca per equivalente di somme di denaro, beni e altre utilità disposta dalla Cpi.

L’assenza di norme di diritto penale sostanziale
Se la legge rappresenta un importante passo avanti per la cooperazione tra Italia e Cpi, non si può non ribadire che manca ancora l’inserimento nel codice penale italiano delle fattispecie di crimini previste nello Statuto della Corte penale, lacuna che renderà complessa la cooperazione.

Sul fronte del diritto penale sostanziale, le uniche novità riguardano l’inserimento di delitti contro la Cpi, con l’introduzione nel codice penale dell’art. 322-bis relativo alla corruzione di componenti della Corte e dell’art. 343 sull’oltraggio ai giudici e ai funzionari della Corte.

Ancora troppo poco. Le lacune nel settore penale sostanziale sono indice di un parziale fallimento nel raggiungimento dell’obiettivo di adeguamento alle disposizioni dello Statuto, poiché è stato centrato solo il risultato della cooperazione giudiziaria di minore impatto concreto, ed è stata invece accantonata l’occasione per adeguare le norme penali del nostro ordinamento con vantaggi che sarebbero potuti andare al di là della sola cooperazione con la Corte.

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