IAI
Elezioni in Israele

La lotteria di Netanyahu

13 Gen 2013 - Maria Grazia Enardu - Maria Grazia Enardu

Le elezioni politiche che si svolgeranno il 22 gennaio in Israele offriranno una mappa, politica e sociale, di un paese profondamente cambiato e che continuerà a trasformarsi man mano che le tensioni interne ed internazionali andranno crescendo. La sinistra non esiste più, a parte la tenace presenza di Meretz, nato negli anni novanta a sinistra dei laburisti, che spera di mantenere i suoi tre seggi (e magari attrarre qualche voto in più) sui 120 della Knesset (il parlamento monocamerale israeliano).

I laburisti infatti non possono essere definiti di sinistra ma di centro, come ripete la leader Shelly Yachimovich, più impegnata su temi sociali che su questioni come il processo di pace con i palestinesi. Hanno al momento solo otto seggi, perché il ministro della difesa, Ehud Barak, era uscito due anni fa per formare un proprio partito, Azmaut (cinque deputati). Barak ha inoltre annunciato che non si ripresenterà. I laburisti secondo i sondaggi dovrebbero arrivare a sedici seggi, quindi con un modesto incremento, se si considera l’assorbimento della fazione di Barak.

Grandi manovre
Il centro, che in Israele ha tradizionalmente pesato poco, ha visto un notevole movimento. Prima la nascita di Kadima, creato da Ariel Sharon nel 2005, e passato dalla leadership di Ehud Olmert a quella di Tzipi Livni e poi Shaul Mofaz. Con Livni, Kadima, aveva tecnicamente vinto le elezioni del 2009 (28 seggi) ma la leader non era riuscita a formare un governo, e l’incarico era andato al capo del Likud, Benyamin Netanyahu. Oggi invece Kadima è dato in caduta libera e non è detto che superi la soglia del 2%. Il che dimostrerebbe che un grande partito di centro non è nelle corde del paese.

Livni, chiusa l’esperienza con Kadima, ha lasciato sia la Knesset sia il partito per fondare, poche settimane fa, il Movimento (Ha Tnuah), che ha messo insieme diversi esponenti di Kadima e qualche laburista. Figlia della destra oltranzista, Livni insiste ora che per mantenere Israele ebraico e democratico occorre creare uno stato palestinese, ben separato. Cercherà di riconfermare i sette seggi che ha ora (deputati uscenti), e se li aumenterà sarà un successo. Gli ultimi sondaggi la danno a quota dieci.

Sempre al centro, insolitamente affollato, anche Yesh Atid (c’è un futuro), guidato dal giornalista Yair Lapid, con un programma radicale ma non troppo. Yair infatti è figlio di Tommy Lapid, fondatore di un partito di diritti civili, Shinui, che ebbe un momento di gloria nel 2003 con ben 15 seggi, per poi sparire. Yair non vuole quindi essere considerato troppo radicale, e ha messo in lista qualche religioso. Potrebbe avere nove seggi.

A destra, anche se si sforzava di apparire di centro, c’è il Likud, che ha però cambiato anima, o gettato la maschera. Netanyahu ha concluso un’alleanza elettorale con il partito Israel Beiteinu (Israele nostra casa), votato per lo più da ebrei russi che si spostano a destra dopo decenni di comunismo. Partito guidato dal controverso ex ministro degli esteri Avigdor Lieberman – peraltro dimessosi per imputazione di truffa – e perenne concorrente di Netanyahu. Ma Netanyahu ha soprattutto imbarcato esponenti della destra dei coloni, che da tempo avevano letteralmente colonizzato anche il Likud, come il molto discusso Moshe Feiglin, allontanando invece i moderati come Begin junior, Meridor, Eitan.

Questa strategia non pare però troppo oculata. Il listone, che ha oggi 27 deputati Likud e 15 di Israel Beitenu, è infatti dato in perdita, a 34 seggi. Sia perché molti elettori moderati stanno guardando altrove, sia perché la concorrenza a destra è diventata spietata. Anzi, conta una nuova star.

Astro nascente
È infatti da poco diventato leader di Habait Hayehudi (La casa ebraica, tre seggi) un quarantenne, a lungo militare e ora milionario high-tech, Naftali Bennett, che ha imparato tutto della politica quando era braccio destro di Netanyahu nel Likud. Conduce una campagna elettorale vivace, aggressiva, moderna e ha concluso anche lui un accordo elettorale a destra, con l’Unione nazionale (oggi due seggi). Insieme dovrebbero arrivare a 14-16 seggi, tutti voti di destra e quindi in fuga dal Likud. Bennett ha detto di non voler uno stato palestinese “dentro Israele” (sic) e molti lo considerano un estremista garbato.

Sempre nella destra estrema, nazionalista, dovrebbe sparire il monodeputato Am Shalem e mantenere i suoi due seggi Ozmah leIsrael (Forza per Israele). Formato da discepoli del razzista Meir Kahane (assassinato a New York da un egiziano nel 1990) è un partitino preoccupato più dagli arabi israeliani che dalla creazione di uno stato palestinese, questione ovviamente fuori discussione.

La destra religiosa manterrebbe le sue posizioni. Shas, partito dei sefarditi-orientali ora a 10 seggi, è dato a 11 e United Torah Judaism, degli aschenaziti, dovrebbe passare da cinque a sei. Piccola crescita attribuibile alla fedeltà dell’elettorato e all’incremento demografico degli elettori. Ma anche indice che Shas non più è in grado di attrarre l’elettorato religioso del Likud.

Fuori dal contesto ebraico, e virtualmente isolati nella Knesset, i quattro partiti arabi, che ora hanno 11 seggi e dovrebbero arrivare al massimo a 12. Merita una menzione Hadash “Nuovo”, anzi vecchio partito di comunisti, l’unico partito binazionale che Israele abbia mai avuto, anche se ora la componente ebraica è ridotta a un misero 10%. I deputati arabi della Knesset sono circa un decimo (11) dei 120 componenti, quando la percentuale della popolazione araba è del 19%. È pur vero che moltissimi sono minorenni e quindi non votano, ma c’è pur sempre una quota mancante, o per astensionismo o perché scelgono altri partiti, “ebraici”. Molti anni fa votavano anche Mapai, infatti.

Va inoltre ricordato, perché in costante crescita, il partito dei non votanti o molto indecisi, che a volte hanno destato sorprese: nel 2009 votò circa il 65%, nel 2006 il 62%. Più che astensionismo è spesso assenza: centinaia di migliaia di elettori vivono stabilmente fuori Israele e non tornano più come una volta.

Equilibrio instabile
Da questi elementi, nuovi e vecchi, emergono alcune linee abbastanza precise. Netanyahu rischia di vincere le elezioni ma contemporaneamente di risultare molto indebolito. Il listone con Lieberman, organizzato per guadagnare voti a destra, sembra invece perderli a favore della destra estrema di Bennett, che cresce e condizionerà qualunque governo a guida Likud. L’alternativa – e costerebbe a Netanyahu una sorta di Canossa – è una coalizione di centro, laburisti compresi (ma Yachimovich ha già detto di no), e di religiosi, con gli ovvi problemi di convivenza tra laici e ortodossi.

In queste elezioni, inoltre, la politica estera conta. L’elettore israeliano deciderà principalmente sulla base di fattori domestici, ma premierà e punirà Netanyahu anche in base all’isolamento internazionale, e in particolare al difficile rapporto con gli Stati Uniti. Netanyahu rischia di vedere una fuga dei suoi voti sia verso il centro sia verso la destra di Bennett, il che equivale a una bocciatura personale, non solo politica, dei suoi cattivi rapporti con gli americani.

Il nuovo governo, dando per scontato che sia a guida Netanyahu per semplice logica numerica, dovrà poi affrontare una crisi economica latente e soprattutto inventarsi un politica estera diversa, verso i palestinesi in particolare. In concomitanza con l’inaugurazione della seconda presidenza Obama, che sta mettendo insieme un’amministrazione che promette maggior attivismo, in politica interna ed estera.

.