I luoghi di culto che dividono il Medioriente
Anche quest’anno la veglia di Natale, celebrata nella chiesa di Santa Caterina, nel complesso della Basilica della Natività di Betlemme, è stata officiata dal patriarca di Gerusalemme dei Latini, monsignor Fouad Twal, di fronte alle più alte autorità palestinesi, il presidente Abu Mazen e il premier Salam Fayyad.
Quello del 2012 è stato però a Betlemme un Natale diverso dai precedenti. Nel suo messaggio natalizio mons. Twal si è infatti felicitato per il voto con cui, il 29 novembre 2012, l’Assemblea generale dell’Onu ha accolto la Palestina come «Stato osservatore»: «Un passo verso la pace e la stabilizzazione della regione», lo ha definito il patriarca dinanzi agli oltre diecimila pellegrini giunti da tutto il mondo che assiepavano piazza della Mangiatoia, antistante la Basilica della Natività.
Partita politica
Contesa in passato da bizantini e persiani, da arabi e crociati e, più recentemente, da israeliani e palestinesi, la Basilica della Natività a Betlemme sorge in area A, che gli Accordi di Oslo 2 (28 settembre 1995) hanno definitivamente assegnato all’autogoverno palestinese. Il muro di separazione costruito da Israele nel 2003 la divide da Gerusalemme est, sede patriarcale e della Custodia di Terra Santa.
Su questo monumento – di una ricchezza spirituale, artistica, storica senza pari – si gioca una partita diplomatica delicatissima. La Basilica è infatti stato il primo luogo situato in territorio palestinese ad essere stato riconosciuto dall’Unesco, nel giugno 2012, «patrimonio mondiale dell’umanità». La richiesta era stata avanzata dallo «Stato di Palestina», che proprio come «stato» è riconosciuto in seno all’Unesco fin dal 31 ottobre 2011.
La decisione sullo status della Basilica della Natività, passata con 13 voti a favore, 6 contrari e 2 astensioni, suscitò sei mesi fa la collera di Israele, che definì la decisione «totalmente politica, capace di danneggiare l’Onu e la sua immagine». Severi anche gli americani, che si dissero, per bocca dell’ambasciatore David Killion, «profondamente delusi».
Da allora, come ritorsione, Israele e Usa hanno interrotto i propri finanziamenti all’Unesco. Al contrario, il presidente palestinese Abbas, tramite il suo portavoce, espresse grande esultanza: «È una vittoria della nostra causa, della giustizia e dei diritti del nostro popolo. Si tratta d’un sito a rischio, per l’occupazione israeliana e la costruzione del Muro di separazione. È naturale che il mondo sia con noi e riconosca i diritti del popolo palestinese e lo Stato di Palestina».
L’auspicio allora espresso da Abu Mazen palesava la caratura fortemente politica della richiesta di una speciale tutela per la Basilica della Natività. Ed in effetti, il nesso tra il dinamismo della diplomazia artistico-culturale dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e un riconoscimento di maggior rilievo della Palestina in sede internazionale ha ottenuto una successiva soddisfazione proprio dal voto dell’Onu di un mese fa.
Schiaffo morale
Ormai prossimo è l’esame da parte dell’Unesco del dossier presentato dal premier Fayyad, che include altri 19 siti storici palestinesi, dalle coste di Gaza alle grotte di Qumran, fino alla moschea di Hebron. Anche in questo caso la partita politica è rilevantissima. Si tratta infatti, in molti casi, di luoghi siti in area B o perfino in area C, quindi ancora sotto completa occupazione israeliana.
Per di più la moschea di Hebron contiene l’accesso principale alla sottostante Grotta dei Patriarchi (o di Macpela), al cui interno si trova la tomba di Abramo, considerata da sempre un luogo sacro anche dall’ebraismo. Essa sorge a ridosso della sinagoga Avraham Avinu, eretta nel medioevo e ripristinata all’indomani della Guerra dei Sei Giorni dai coloni ultra-ortodossi che sono tornati ad abitare il quartiere ebraico e il vicino insediamento di Kiryat Arba.
Il fatto che l’Unesco abbia accettato di esaminare un tale dossier, è percepito da Israele come uno schiaffo politico. Ed in effetti può essere letto come una risposta al premier Netanyahu che, nel febbraio 2010, aveva annunciato di voler annettere unilateralmente nel patrimonio culturale israeliano la Tomba di Giuseppe a Nablus, la Tomba di Rachele a Beit Jala e la stessa Grotta dei Profeti a Hebron, tutte e tre poste oltre la linea verde (rispettivamente in zona A, zona C e zona H2).
In quell’occasione si erano verificati a Hebron, Nablus e perfino a Gerusalemme est scioperi generali e scontri fra i più gravi dalla fine della seconda Intifada. E altrettanto gravi tensioni aveva suscitato, poche settimane più tardi, il completamento del restauro della sinagoga di Hurva, nel quartiere ebraico della Città Vecchia di Gerusalemme, minata dai giordani nel 1948 ed adesso riaperta al culto.
Al contrario, la richiesta israeliana di una protezione internazionale dell’intera Città Vecchia di Gerusalemme, anch’essa ad est della linea verde, è da anni respinta, in quanto classificata dall’Unesco come «zona contesa» e quindi non attribuibile a uno stato, nonostante Israele la consideri dal 1980 parte della sua capitale «unica e indivisibile».
Battaglia culturale
In questo contesto il progetto di restauro della Basilica di Betlemme, promosso dall’Anp, ed in particolare dal Consigliere per gli affari cristiani Ziad Bandak, rappresenta un azzardo diplomatico. Il progetto ha trovato il beneplacito delle tre riottose confessioni cristiane che gestiscono il sito (ortodossi, armeni e cattolici) ed il riluttante consenso di Israele.
La gestione dei fondi necessari al restauro, circa 30 milioni di dollari, è stata affidata all’Anp, la quale ha commissionato una ricognizione preliminare al Cnr italiano. L’equipe internazionale guidata dal prof. Claudio Alessandri, dopo mesi di rilevazioni, ha stabilito che vi sono alcuni punti a rischio di crollo, giudicando l’intervento di restauro «di media complessità». Ma la vera incognita – ha dichiarato il prof. Alessandri – sono le questioni politiche: «Appena si toccheranno le zone confinanti tra le varie Chiese, spunteranno i veti. Per non dire degli israeliani, che in questi mesi ci hanno reso la vita difficile: nonostante le garanzie dell’ambasciata italiana, hanno bloccato in dogana gli strumenti necessari alle ricerche».
Il prof. Alessandri appare ottimista: «I soldi ancora non ci sono, ma non mi sembrano un problema. La sponsorizzazione dei paesi arabi, mi dicono, darà una mano decisiva». In effetti l’ultima raccolta di fondi per i restauri ha visto – altro dato politicamente significativo – l’esclusivo concorso di governi musulmani: il re saudita Abdallah che è custode delle città sacre all’Islam, il re Abdallah di Giordania che discende direttamente da Maometto, l’onnipresente emiro del Qatar Hamad bin Khalifa Al-Thani, lo sceicco di Abu Dhabi, il sultano dell’Oman. «Sì, è un po’ un paradosso che i soldi arrivino da lì – ammette padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa. Ma sono stati i palestinesi, con qualche ragione visti i problemi che ci dividono, a volere che le chiese stessero fuori. Considerano la Basilica patrimonio nazionale. E i tempi ora sono accelerati, perché la Palestina vuole fare bella figura e meritare quel seggio all’Unesco».
Poco di là dal Muro, intanto, la Vigilia di Natale 2012, il governo israeliano ha annunciato il bando per un progetto di edificazione di 942 nuove abitazioni a Gerusalemme est. La guerra politico-diplomatica, in Palestina, si combatte anche con le armi dell’architettura.
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