Arrivederci Londra
Doveva essere il discorso dell’anno, quello che avrebbe ridefinito l’agenda europea per il prossimo decennio. Vittima di errori di calendario e di esitazioni nella scrittura, ha finito per essere pronunciato alle otto del mattino a Londra nella sede di un’agenzia di stampa americana. Dopo settimane di accorte indicazioni da parte degli spin doctors di Downing street, difficilmente il tanto atteso discorso del primo ministro britannico David Cameron sull’Europa avrebbe potuto contenere novità dirompenti.
Senza rimedio
Trattandosi della solenne formulazione della politica europea di uno dei più importanti paesi dell’Ue, esso merita comunque un’analisi attenta. In primo luogo il discorso contiene l’affermazione netta che il popolo britannico ha aderito a un mercato comune e non a un’unione destinata, sia pure fra mille difficoltà, a integrarsi politicamente. Si dirà che lo sapevamo già, ma non ricordo, almeno negli ultimi anni, altre dichiarazioni così nette e circostanziate. A questo punto, rilevare che l’idea di una “ever closer union” era già contenuta nel trattato di Roma e sempre rafforzata nelle tappe successive, può sembrare addirittura ozioso.
Più importante è invece la constatazione che questa posizione è largamente condivisa dalla maggioranza dei britannici, compresi i cosiddetti pro-europei la cui idea su questo punto non differisce sostanzialmente da quella degli euroscettici. A molti europei l’Unione attuale non piace per quello che fa (o spesso per quello che non fa); ai britannici non piace quello che è. Dobbiamo purtroppo ammettere che a questo problema non c’è rimedio.
L’analisi di Cameron confonde volutamente due piani. Da un lato vuole affrontare un problema reale: come gestire, senza compromettere l’integrità del mercato unico, un’Unione all’interno della quale i membri dell’eurozona sono avviati a un’integrazione più stretta. Dall’altro vuole ottenere il rimpatrio di alcune competenze d’interesse specifico per il Regno Unito.
Diciamo subito che il primo obiettivo è posto in modo velleitario; un ragionamento che tenta di sostenere che un sistema con meno vicoli può convivere con un’eurozona rafforzata senza che ciò conduca a un’Europa a due velocità, è la parte intellettualmente più debole del discorso, e serve solo a dare una veste “europea” a una strategia puramente nazionale. O piuttosto, non lo sarebbe, se Cameron proponesse una soluzione apertamente federalista, cosa che evidentemente non è.
Anche per quanto riguarda le rivendicazioni specificamente britanniche, Cameron non dice chiaramente quali poteri vorrebbe rimpatriare; il ventaglio delle possibilità è molto ampio e va da un’operazione puramente cosmetica come fu quella intrapresa da Wilson nel 1974, a una riforma molto più radicale che toccherebbe anche alcuni capisaldi del tanto elogiato “mercato unico”. Cameron, facendo esplicito riferimento a una riforma del trattato sembra propendere per la seconda ipotesi, anche se saggiamente tiene molte porte aperte.
Tempi lunghi
La parte più interessante del discorso riguarda i tempi. Anche per calmare gli ardori di chi vorrebbe un referendum immediato, Cameron spiega che sarebbe sciocco chiedere al popolo di esprimersi senza che sia chiaro dove sta andando l’eurozona; quindi, nell’ipotesi che siano le stesse riforme necessarie all’eurozona a richiedere un nuovo trattato, il rinegoziato britannico dovrebbe avere luogo nel 2015 (opportunamente dopo le elezioni) per portare a un referendum nel 2017. Tutto ciò può sembrare politicamente ingegnoso, ma purtroppo Cameron non è padrone del calendario. In primo luogo i tempi e i modi della riforma dell’eurozona li decideremo noi, spinti dalle circostanze e dai tempi della nostra politica e non di quella britannica.
È probabile che a un certo punto avremo bisogno di un nuovo trattato, ma non è detto che ciò avverrà entro il 2015. Nel frattempo però saremo condotti, come già avviene per l’unione bancaria, a prendere decisioni che interferiscono potenzialmente con la gestione del mercato unico; ciò fornirà agli euroscettici del suo partito, che Cameron crede di aver provvisoriamente calmato, numerose occasioni per riaprire le ostilità. Inoltre Cameron teorizza che il mercato unico sia per definizione il core business dell’Unione, e tratta l’euro quasi come un epifenomeno: in questo si sbaglia.
Non sappiamo quale sarà la configurazione di ins e outs della moneta unica al momento in cui si dovrà negoziare il nuovo trattato. Non è assurdo pensare che a quel punto la distinzione fra 17 e 27 teorizzata da Cameron sarà cambiata e molti (anche se non tutti) gli outs attuali saranno in procinto di aderire all’euro o avranno fermamente deciso di farlo. Resta infine da vedere se e fino a che punto anche gli outs residui condivideranno concretamente le esigenze britanniche. In sostanza, la speranza di annegare le richieste in una più generale ridefinizione degli equilibri europei dovrà lasciare posto a un molto meno glorioso (e più rischioso) rinegoziato puramente britannico.
Tanto rumore per nulla
Come potrebbe andare a finire? Come in ogni negoziato, le posizioni sono asimmetriche e bisogna distinguere fra ciò che si auspica e ciò che si vuole veramente. In questo caso, tutti (compreso Cameron) vorremmo che la Gran Bretagna restasse nell’Unione, ma le priorità dei due campi sono distanti e per certi versi non conciliabili. Per il momento, il pallino (ma anche l’onere di dettare l’agenda) è totalmente in mano nostra. Ci saranno grandi dichiarazioni di buona volontà da tutte le parti, ma le carte distribuite non sembrano favorire Cameron.
Nel suo discorso ha tuonato contro una soluzione “norvegese o svizzera”; in sostanza vuole mantenere i vantaggi di cui godono questi due paesi, ma non vuole rinunciare alla possibilità di partecipare alle decisioni dell’Unione. Tuttavia, la spinta congiunta degli euroscettici britannici che tenderanno ad alzare l’asticella del negoziato e la resistenza degli altri stati membri, fanno apparire questo obiettivo molto problematico, soprattutto se le richieste di rimpatrio di poteri riguarderanno anche elementi che toccano le “quattro libertà”, mettendo seriamente in pericolo l’integrità del quadro giuridico dell’Unione.
C’è evidentemente la possibilità (anzi, allo stato attuale la probabilità) che cada il principale presupposto della strategia di Cameron, cioè che lui vinca le prossime elezioni. In sostanza un governo che fra tre anni potrebbe non essere più al potere, ci propone un rinegoziato intorno a questioni non definite, a una data che potrebbe essere irrealistica e in un contesto che vedrà probabilmente un’Europa profondamente diversa da quella attuale.
Potremmo dunque dire: “tanto rumore per nulla”. Non proprio. La macchina psicologica che porta la Gran Bretagna all’inevitabilità di un referendum sull’Europa è partita e non sarà facile fermarla nemmeno a un futuro governo laburista. Il dibattito che ha preceduto e accompagnato il discorso di Cameron dimostra almeno una cosa: i cosiddetti europeisti britannici non hanno una loro visione da contrapporre a quella degli euroscettici. Può darsi quindi che il dramma non termini in tragedia, ma è comunque difficile attribuirgli un lieto fine.
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