L’incerto destino di Gaza
L’operazione “Colonna di nuvole” lanciata lo scorso 14 novembre da Israele ha confermato ancora una volta che il blocco della striscia di Gaza non è riuscito a impedire l’afflusso nell’area di un numero crescente di missili. Ha invece rafforzato Hamas, fornendo nuovo impulso alla retorica ideologica che lo caratterizza. Oggi più che mai, grazie anche alle recenti visite di Khaled Mashal (leader di Hamas in esilio), dell’emiro del Qatar, del premier egiziano, del ministro degli Esteri turco e di quello tunisino, il movimento islamico si auto-presenta come l’unica organizzazione palestinese in grado di sfidare sul campo Israele.
Per contro, l’Autorità nazionale palestinese (Anp) del presidente Abu Mazen, il partner “auspicato” da Washington, dall’Ue e da Tel Aviv, ne è risultata fortemente indebolita. L’Anp, fatti salvi i suoi recenti successi alle Nazioni Unite, facilitati dalle considerazioni generate dall’ultima campagna militare e accolti con una certa diffidenza in Cisgiordania, continua infatti a venire accusata di essere funzionale al mantenimento dell’occupazione dei territori palestinesi; sotto l’attuale governo Netanyahu, stando ai dati forniti di recente dal ministro delle Finanze israeliano Yuval Steinitz, il bilancio destinato ai territori occupati è raddoppiato.
Tanto l’Egitto di Morsi (interessato a limitare l’influenza dei “salafiti massimalisti” nel Sinai e nella striscia di Gaza), quanto Israele (alla ricerca di efficaci deterrenti che possano proteggere il paese dai missili che lo minacciano) e ovviamente gli stessi palestinesi hanno ragioni più che mai evidenti per attuare un significativo alleggerimento di un blocco dimostratosi controproducente. In caso contrario, qualora la striscia di Gaza continuasse ad essere consapevolmente tenuta nell’attuale stato, a guadagnarne saranno i volti più oltranzisti delle diverse parti in causa. Figure che sovente, al di là delle apparenze, sono funzionali le une alle altre.
Tra piazza Tahrir e il valico di Rafah
Il cambiamento epocale innescato dalla rivoluzione di piazza Tahrir è impresso in decine di luoghi-simbolo sparsi in giro per l’Egitto. Lo avverti camminando davanti alla villa cariota dell’ex dittatore Hosni Mubarak, ormai ignorata e abbandonata a se stessa. Te ne accorgi prestando attenzione alla nuova toponomastica delle maggiori città del paese: le piazze, i ponti, le strade, gli ospedali e le 549 scuole dedicate all’ex dittatore e ai suoi più stretti familiari sono state ribattezzate a tempo di record attingendo soprattutto ai nomi dei principali “martiri” della rivoluzione.
A poco più di trecento chilometri dal Cairo – cinque ore di viaggio tra sabbia ed edifici in costruzione – esiste un sito dove la cesura tra passato e presente e i riverberi della rivoluzione sono se possibile ancora più evidenti. È posto a pochi metri dal suolo egiziano, sul lato palestinese del valico di Rafah, uno dei luoghi più desolanti dell’intero Medio Oriente. Si tratta di un modernissimo terminal dotato di aria condizionata, marmi pregiati, legno, sedie in metallo, sale computerizzate e immagini che rimandano a ridenti spiagge. È stato costruito in tutta fretta dai vertici di Hamas nei giorni successivi all’elezione del presidente Mohamed Morsi.
Allo squallore che caratterizza il lato egiziano del valico e ancor di più alla decadenza che attanaglia la striscia di Gaza fa oggi da contraltare questa sorta di cattedrale nel deserto, una struttura “fuori contesto” che ha le sembianze di un piccolo aeroporto. Con tale iniziativa la leadership di Hamas auspica e fa pressioni affinché il nuovo Egitto che si sta delineando passi attraverso un completo smantellamento del “blocco” di Gaza (“chiusura illegale”, secondo la definizione dell’Ong israeliana Gisha) e la libera circolazione della sua gente e delle sue merci.
Sotto controllo
La parziale apertura del passaggio di Rafah – attivo al momento sei giorni su sette – era stata accolta già nel maggio del 2011 con un certo sollievo, sebbene Il Cairo nutrisse e continui a nutrire un certo scetticismo, in primis legato alle sorti del Sinai. Anche in Israele – al di là di una comprensibile cautela e del timore che una completa apertura possa coincidere con un ulteriore afflusso di armi iraniane – è opinione diffusa che l’Egitto abbia in questo modo assunto su di sé la “responsabilità degli abitanti di Gaza” (Alex Fishman) e che grazie all’apertura del valico Israele possa più facilmente “liberarsi di una serie di problemi” (Shlomo Avineri).
Paradossalmente sono tuttavia proprio i palestinesi a mostrare ancora oggi alcune delle perplessità più concrete. Le voci di quanti riescono a passare la frontiera sono in questo senso sintomatiche: “L’apertura del valico – chiarisce Salim al-Hout, un commerciante originario di Khan Yunis – ha rappresentato per tutti gli abitanti di Gaza un passo di grande importanza, non solo simbolica. Tuttavia tale autorizzazione è riservata solo ai residenti che siano in possesso di una carta di identità [hawiyya] approvata dalle autorità israeliane. Diverse migliaia di persone, soprattutto tra i 18 e i 40 anni, sono dunque ancora oggi impossibilitate a muoversi”.
Una delle preoccupazioni maggiori è connessa agli aspetti economici. Sara Roy fece riferimento al concetto di “de-sviluppo”, ovvero il processo che pregiudica la capacità di un’economia di crescere oltre un certo livello, impedendole di accedere alle risorse necessarie. Ai giorni nostri la “morsa” che attanaglia Gaza si è leggermente allentata a seguito degli accordi presi a margine dell’ultima guerra tra Hamas e Israele.
Tuttavia l’impossibilità da parte dei pescatori locali di poter sfruttare in maniera adeguata lo spazio marino antistante Gaza, nonché la quasi totale mancanza di acqua utilizzabile per il consumo umano e il divieto di esportare i propri prodotti in Cisgiordania, in Israele e nello stesso Egitto (l’apertura del valico è infatti riservata solo alle persone e non alle merci), restano problemi più che mai attuali. Essi contribuiscono a paralizzare i settori agricoli, industriali e ittici, creando un’economia locale sempre più “drogata” dagli aiuti internazionali.
Un aspetto particolarmente rilevante in una società afflitta da un tasso di disoccupazione vicino al 40 percento: “Il timore – spiega Mohamed al-Sharif, tassista in pensione, nato nel 1941 a Najd (adiacente all’odierna Sderot) e cresciuto a Jabalya – è che da una parte si cerchi sempre più di rendere invivibili le nostre vite e dall’altra si incentivino le persone ad andarsene. Gli aiuti internazionali sono solo un palliativo. Ci trasformano in elementi passivi. Ci costringono a dover rendere conto a donatori quasi sempre tutt’altro che disinteressati. È un modo efficace per soffocare le nostre iniziative, le nostre aspirazioni. Se siamo arrivati a questo punto è anche per colpa di Hamas. Ma Hamas è una conseguenza, non il punto di partenza”.
Parlare con il nemico
A livello politico, una efficace riduzione della pressione su Gaza potrà far registrare dei frutti concreti solo sul medio e lungo termine. Sul breve – a dispetto della carte fondanti, dei manifesti, delle affermazioni, nonché dei documenti programmatici prodotti da molteplici protagonisti di questa tragedia – non c’è altra strada se non quella di trovare una qualche forma di dialogo.
In poco più di un anno il premier israeliano Netanyahu ha trattato in due circostanze, sia pur indirettamente, con i vertici di Hamas. La prima durante lo scambio di prigionieri che ha portato alla liberazione di Gilad Shalit; la seconda poche settimane fa per raggiungere una tregua all’ultima guerra di Gaza. Due importanti precedenti – certamente rischiosi, ma meno di ciò rappresenterebbe il perpetuarsi dell’attuale status quo – che potrebbero aprire nuovi spiragli: “Se vuoi raggiungere la pace”, notò nell’ottobre del 1977 l’allora ministro degli Esteri israeliano Moshe Dayan, “non parli con i tuoi amici. Parli con i tuoi nemici”.
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