Obama davanti all’ipoteca islamista
La rielezione di Obama come presidente degli Stati Uniti prefigura una continuità della sua politica estera verso il Medio Oriente e il Nord Africa. Questa continuità tuttavia è quella di un progetto in corso di esecuzione e non di una politica già collaudata.
Il secondo mandato è un’occasione perché Obama dia un profilo più preciso e degli obbiettivi più specifici a orientamenti rimasti abbastanza fluidi e, talvolta, rivelatisi deludenti. In una parola, perché definisca il suo progetto, ponendo le condizioni politiche e diplomatiche per la sua realizzazione.
Mondo arabo
Fondamentalmente, il progetto mediorientale di Obama è di riformare il rapporto fra gli Stati Uniti e questa regione, riducendone il peso sproporzionato che ha assunto nel corso delle presidenze “imperiali” di Bush padre e di Bill Clinton, fino al disastro di Bush figlio. Da un lato, quindi, il progetto punta a ridurre la rilevanza della regione nel quadro di una “grand strategy” che guarda ad altri problemi e ad altre regioni (principalmente l’Asia-Pacifico); dall’altro, punta a rendere normale il rapporto fra Stati Uniti e arabi, cioè a ridurre l’antiamericanismo radicale che si è sviluppato in questa regione, che è poi uno dei motivi che ha tanto impegnato gli americani polarizzandone le risorse.
La riforma del rapporto è condizione perché gli Usa possano poi sviluppare una strategia globale differente. Per ora se ne è molto parlato, sono state poste premesse di politica importanti, come nelle nuove Linee guida della difesa (che iniziano ad accrescere le risorse dedicate all’Asia e diminuire quelle dedicate all’Europa). Ma di fatto il Medio Oriente resta al centro, come si è visto nel dibattito televisivo fra Obama e Romney, dove si è parlato in pratica solo di Medio Oriente: islamisti, Iran e Siria.
La normalizzazione dei rapporti è stato il primo tentativo di Obama. Nel discorso fatto al Cairo subito dopo la sua elezione, Obama articolò un programma di rispetto reciproco e collaborazione con i musulmani, riconoscendo fra l’altro l’urgenza di dare una soluzione al conflitto israelo-palestinese.
Successivamente però la sua gestione della questione risultò sorprendentemente dilettantesca e si tradusse in un vicolo cieco, da cui Obama è uscito solo abbandonando il suo tentativo. Il generale Petraeus registrava l’assenza di normalizzazione qualche anno dopo, affermando davanti a una commissione parlamentare che l’incapacità americana di contribuire a una soluzione del dramma palestinese restava causa rilevante del persistente antiamericanismo della regione.
Iran e Fratelli musulmani
Mentre la normalizzazione è rimasta un’intenzione, il ridimensionamento della regione nel grande quadro strategico americano è stato invece il filo conduttore dell’amministrazione, che su questo fronte ha compiuto passi concreti. Il ritiro dall’Iraq e l’ineluttabile transizione verso il ritiro dall’Afghanistan vanno visti come una premessa dolorosa e costosa, ma ineludibile per sgombrare il terreno dalla macerie del passato e poter passare a una politica nuova.
I contorni di questa politica sono rimasti imprecisi nel quadro di un’azione dominata dal pragmatismo e comunque vincolata dalla difficile situazione socio-economica interna. Tuttavia, due linee sono emerse in evidenza: una è stata la costanza nella ricerca di un dialogo con l’Iran, l’altra la decisione non facile di rovesciare le alleanze in Nord Africa passando dai dittatori post-nazionalisti ai Fratelli musulmani.
All’inizio del suo mandato Obama si aspettava un Iran più disponibile a dialogare. Successivamente, ha dovuto rinunciare al dialogo, ma non ha mai smesso di ricercarlo, puntando sulle sanzioni ma frenando l’avventurismo israeliano del governo Netanyahu.
Alcuni segnali giunti nelle settimane precedenti le elezioni, fanno ritenere che l’Iran accetti alla fine di negoziare. Obama probabilmente è convinto che una solida ricomposizione dei conflitti della regione possa aversi solo includendo l’Iran. Se l’Iran è escluso, la tensione continuerà a riprodursi nella forma di conflitti settari regionali e sub-regionali e nell’impedire la soluzione di qualsiasi altro conflitto, da quello siriano a quello iracheno a quello israelo-palestinese.
Un modus vivendi con l’Iran è la premessa maggiore di un serio sganciamento strategico degli Usa dalla regione, che altrimenti continuerà ad essere una fonte di conflitti e a richiamare le forze e le risorse americane. Altrettanto importante in questa prospettiva è l’affermazione di regimi islamisti centristi al posto dei vecchi dittatori: essi difficilmente potranno essere degli alleati, come Mubarak, ma dei regimi sostanzialmente amici invece sì.
L’Occidente dovrà attenuare la sua politica di promozione della democrazia onde, da un lato conservare un rapporto amichevole e costruttivo con questi nuovi governi e, dall’altro, lasciare che siano essi a provvedere alla stabilità della regione.
Il discorso che il presidente Morsi è andato a fare a Teheran in agosto, proponendo una coalizione diplomatica Egitto,Turchia, Iran e Arabia Saudita per mediare il conflitto siriano, non è stato accolto bene a Washington. Ma in realtà è in linea con quello che l’amministrazione Obama desidera: che la regione sviluppi una maggiore autonomia, non necessariamente ostile all’Occidente, liberando gli Usa da compiti che non sono più al vertice dei suoi interessi.
Sganciamento
Tuttavia, mentre l’Iran dà cenni incoraggianti, l’evoluzione dei governi islamisti emergenti del Nord Africa suscita preoccupazione, perché non sembra in grado di mantenere quel centrismo che è essenziale per gli obbiettivi della politica americana. In effetti sia i Fratelli musulmani egiziani che quelli tunisini subiscono forti pressioni da parte dei partiti fondamentalisti che sono loro ideologicamente contigui, come pure da parte di un’opposizione che più che liberale sembra essere mossa da un laicismo intransigente.
Questa intransigenza laica facilita i cedimenti verso il fondamentalismo. I progetti di costituzione che sono stati approvati dalle istituzioni dei due paesi riflettono questa contrapposizione e in più punti: invece di fissare principi costituzionali, si affrettano a fissare veri e propri lineamenti di legislazione.
Se confermata, questa evoluzione investirebbe anche il sistema del trattato di Camp David. Verso questo trattato gli islamisti di centro hanno intenzioni riformatrici ma non revisioniste. Uno scivolamento ideologico verso il fondamentalismo in politica interna non potrebbe che avere conseguenze anche in politica estera.
Cessato il rischio di un’America che “torna a ruggire”, se Obama persiste nella sua idea – perfettamente condivisibile – di riconoscere al Medio Oriente la sua autonomia per poter riordinare i suoi interessi globali, è ora necessaria una maggiore iniziativa diplomatica. Questa iniziativa non riguarda solo la riformulazione dei rapporti con la regione e con i suoi attori, ma anche la normalizzazione alla quale occorre tornare. Malgrado l’appoggio che l’amministrazione Obama ha fornito ai nuovi regimi islamisti, l’antiamericanismo continua ad essere rampante.
Per affrontare questa normalizzazione è necessario che Obama riprenda il dossier israelo-palestinese, fondandolo su una diplomazia più realistica ed efficace di quella del suo esordio. Ha di fronte altri quattro anni e sarebbe ora il momento di passare dal necessario periodo formativo della sua politica ad uno periodo di concrete realizzazioni.
Gli europei sono interessati a questo sviluppo. Da esso potrebbero, forse, essere ora incentivati a dare una collaborazione più esplicita e costruttiva, laddove finora – Libia a parte – hanno lasciato ogni onere a Washington.
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