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Conflitto con Israele

La Primavera araba si spegne a Gaza

18 Nov 2012 - Roberto Aliboni - Roberto Aliboni

La crisi in corso a Gaza è destinata a segnare una svolta sia nella dinamica regionale sia nei rapporti tra mondo arabo e Occidente per come si erano sviluppati dopo l’avvio della Primavera araba, nel 2011. Soprattutto se, come ormai sembra certo, sfocerà in un’altra invasione da parte di Israele.

I cambiamenti politici avviati dall’inizio del 2011 si sono tradotti nella caduta di tre regimi chiave per gli interessi dell’Occidente: Egitto, Tunisia e Libia. Un processo non ostacolato da Usa e Ue: il presidente Obama ha infatti scelto di lasciar cadere il rais egiziano Mubarak per procedere poi a un vero e proprio rovesciamento delle alleanze, da Mubarak ai Fratelli musulmani.

Strategia Obama
Una decisione che riflette l’evoluzione della strategia globale americana: concentrazione delle risorse nell’area asiatica e diminuzione della presenza diretta altrove, attraverso una migliore gestione delle alleanze locali e regionali e della relativa diplomazia. In Medio Oriente, perciò, l’impegno a sostenere alleati ormai insostenibili è stato scartato, scommettendo sull’intesa con i partiti islamisti moderati in merito ai maggiori interessi americani e occidentali nella regione. A cominciare dal mantenimento del regime di sicurezza instaurato dal Trattato di pace israelo-egiziano di Camp David del 1979.

La prospettiva scelta da Obama non è infondata. A fronte del mantenimento del Trattato, i Fratelli musulmani si apprestano a ricevere gli stessi aiuti forniti ai regimi autoritari più lo sforzo supplementare che la “Primavera araba” ha messo in moto in Europa, nel Golfo e nel contesto internazionale. Questo è un fattore cruciale per la Fratellanza, che eredita una situazione socio-economica molto grave e ha bisogno di grandi investimenti e cooperazione tecnologica, innanzitutto ovviamente dall’Occidente.

Inoltre, l’ascesa del sunnismo in Nord Africa e nel Levante rinsalda i legami con il Golfo e crea un esteso fronte d’intesa politica volto a bilanciare e smorzare l’ascesa dell’Iran e dei suoi alleati nella regione. Un’intesa sunnita, anche se sacrificherà le aspettative democratiche delle minoranze liberali e religiose della regione, rientra nella strategia di controllo indiretto che gli Stati Uniti stanno costruendo. Perciò, l’aspettativa è che i sunniti, dai Fratelli musulmani in Egitto alle monarchie del Golfo, in cambio dell’appoggio politico e dell’integrazione nel circuito economico-finanziario del capitalismo internazionale, si facciano carico di mantenere l’essenziale del sistema di sicurezza di Camp David.

Cambiamento regionale
Questa prospettiva non è automatica né al ribasso. Non si tratta solo di qualche aggiustamento marginale, come la rinegoziazione dell’annesso militare al Trattato in vista di una migliore sicurezza nel Sinai. In realtà è una grossa sfida diplomatica che punta ad un cambiamento ordinato e consensuale dell’assetto regionale ma richiede, come condizione della sua realizzazione, un rinnovato e maggiore sforzo da parte degli Stati Uniti per dare una soluzione definitiva e soddisfacente al conflitto arabo-israeliano. Ci si aspetta infatti che tale sforzo debba assumere un ruolo centrale nel secondo mandato di Obama. Nei mesi passati la diplomazia araba è apparsa muoversi nei confronti di Hamas in linea con questa prospettiva.

La visita del leader di Hamas Khaled Meshal al neo presidente egiziano Morsi nel luglio scorso ha messo in evidenza relazioni ovviamente ottime, ma anche la ferma intenzione egiziana di rinviare al futuro ogni passo concreto nell’ambito delle relazioni con Israele e, quindi, con i palestinesi. Questa posizione è influenzata dalla priorità dei problemi economici e sociali interni, dalla fluidità della dinamica regionale e internazionale e dai rapporti con i militari.

Questi ultimi hanno silurato il capo delle forze armate Tantawi e le sue ambiguità reazionarie, facendo un gran favore a Morsi. Ma lo hanno fatto perché fosse confermato e garantito il loro status: voce in capitolo in merito alla sicurezza, rapporti diretti con gli Usa inclusa la sovvenzione storica di 1,2 miliardi di dollari all’anno, e interessi corporativi. I militari costituiscono un forte fattore di sostegno al regime, ma anche di conservazione nei rapporti con Israele. In questo quadro, Morsi è intervenuto nel Sinai in agosto per ristabilire le condizioni di sicurezza richieste dal Trattato di Camp David, anche se sullo sfondo ha lasciato intravedere le intenzioni egiziane di rivederlo.

La politica di Morsi sembra voler favorire (con cautela) una maggiore apertura del passaggio di Rafah tra la striscia di Gaza e l’Egitto, e ostacolare invece l’influenza dell’Iran e dei jihadisti su Hamas (e quindi controllare il Sinai) e aspettare il momento giusto per prendere un’iniziativa diplomatica verso il conflitto nel suo insieme condizionatamente ai rapporti con gli Usa. La preoccupazione anti iraniana è condivisa dai regimi sunniti del Golfo. La solidarietà dei regimi sunniti verso Gaza è sincera, ma è anche mossa dalla necessità di competere con l’influenza iraniana. In questo quadro, l’emiro del Qatar ha visitato ufficialmente Gaza qualche settimana fa lasciando una sovvenzione di 400 milioni di dollari. È possibile che l’intervento diplomatico di medio periodo, cui si è accennato, finisca per essere arabo e non solo egiziano.

Vendetta di Gaza
Questo processo è maturato in sintonia con la strategia americana. Il confitto che ora si apre a Gaza come conseguenza dell’escalation impressa agli eventi da Gerusalemme, con l’uccisione del leader militare di Hamas, Ahmed Jabari, gli estesi bombardamenti aerei e, probabilmente, l’invasione militare terrestre, è destinato a radicalizzare le posizioni.

La spinta della base di elettori e oppositori, uniti contro Israele, non può essere liquidata con la repressione da un governo che è espressione democratica di queste masse ed è ideologicamente in sintonia con esse. Il contrasto con l’Iran e i suoi alleati passa in secondo piano. In generale, le condizioni per l’evoluzione di un processo di adattamento politico, tale da consentire a più lungo termine una ripresa diplomatica del conflitto arabo-israeliano, rischiano di saltare.

In questo senso, gli eventi di Gaza in questo scorcio del 2012 rischiano anche di travolgere la direzione del cambiamento in corso nella regione. Possono infatti vanificare la scommessa di ricreare un rapporto amichevole fra Occidente, da un lato, e mondo arabo, dall’altro, su basi nuove. Mentre due anni fa, una gran parte dell’opinione pubblica occidentale salutava le rivolte arabe come uno sviluppo che, puntando alla democrazia, banalizzava e rendeva obsoleto il conflitto sulla Palestina, quest’ultima si vendica tornando ora sul proscenio.

Questo sarà pure il risultato inevitabile della storia che va avanti, ma certamente è anche il risultato dell’estremismo del governo di Gerusalemme. Così come della debolezza dell’amministrazione Usa verso un mondo arabo che, al di là di qualsiasi Primavera, né democratici né repubblicani riescono a comprendere fino in fondo. Gli europei lo capiscono di più, ma ancora una volta tutto questo passerà sulle loro teste.

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