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Verso il voto

La lobby americana in Israele

26 Ott 2012 - Maria Grazia Enardu - Maria Grazia Enardu

Nel ricco e variegato panorama delle lobby ebraiche ed israeliane (non sono la stessa cosa) negli Stati Uniti, emerge un nuovo fenomeno affascinante: una lobby contromano, un gruppo di pressione americano su Israele.

E che pressione. Si tratta di una lobby informale, che non esiste ufficialmente, ma per definizione è composta da persone competenti e influenti, che hanno molto potere, soprattutto militare. L’evento è stato segnalato da un articolo del New York Times, a firma di Graham Allison e Shai Feldman, e ci piacerebbe vedere gli appunti su cui hanno lavorato, perché in pratica non si fanno nomi.

Maratona elettorale
Ma una volta segnalato, il gruppo emerge dai fatti, sul terreno del dibattito sull’attacco all’Iran che Israele voleva compiere, con benedizione e sostegno americano. Il discorso di Netanyahu all’Onu in settembre è stato così il canto del cigno dell’impresa, per l’immediato e logico futuro, e la lobby glielo ha lasciato fare, perché l’Iran è la piattaforma con cui Netanyahu si presenterà alle elezioni del prossimo 22 gennaio. E vincerà, non ha avversari a destra e nemmeno nell’inesistente sinistra. Data interessante: è il giorno dopo l’insediamento del nuovo presidente americano, Obama o Romney.

Rimanendo ai fatti, e solo del 2012, c’è stata una impressionante catena di dichiarazioni. In Israele tutti i vertici, presenti e passati, di forze armate e agenzie di intelligence, hanno dichiarato che l’attacco all’Iran era infattibile, pericoloso, basato su premesse sbagliate. Dal Capo di stato maggiore Benny Ganz a quello del Mossad, Tamir Pardo, alla pattuglia di predecessori (durissimo, Meir Dagan, Mossad 2002-11), quasi tutti erano contro Netanyahu e la sua politica incentrata sul nucleare iraniano, che trascurava il resto. Infatti i tre servizi segreti nel 2011 avevano già chiesto al governo la seria ripresa di un negoziato con i palestinesi.

La posizione americana è ben nota: sanzioni e tempo, per indebolire e possibilmente scardinare il regime. Funziona, anche se gli esiti politici non sono prevedibili. Solo il fallimento di questa linea porterebbe gli americani a considerare una soluzione militare.

Lo hanno dichiarato esplicitamente il presidente Obama e il segretario di Stato Clinton, assicurando in ogni occasione pieno e concreto appoggio a Israele. L’espressione più usata è “there is no daylight” tra le politiche dei due paesi riguardo all’Iran, nessuna percepibile distanza. Lo stesso dichiara Leon Panetta, capo del Pentagono, che con Israele ha la più stretta collaborazione tecnica.

Avvinghiamento
Ma dal fronte americano arrivano anche voci che di solito si sentono poco. Come il capo dei Joint Chiefs of Staff americano, il vertice militare, il generale Martin Dempsey. A settembre, in visita a Londra, disse nel modo più chiaro possibile che l’attacco non andava fatto e aggiunse che se Israele avesse agito, lui non avrebbe voluto essere considerato complice in alcun modo.

Dempsey parlava a qualcuno, all’invisibile lobby, costruita nel corso degli anni sulla base di una forte e mai formalizzata alleanza. Israele fa parte dal 1987 dei paesi con status di “alleati non-Nato”, che non comporta affatto un trattato di mutua difesa, ma permette di godere di privilegi in tema di cooperazione, soprattutto militare, e quindi di aiuti. Infatti l’ingresso di Israele nella lista coincise con quello dell’Egitto, paese che aveva – fino a Mubarak – la stessa quota di aiuti americani.

Negli ultimi anni il livello di cooperazione tra militari americani e israeliani è salito. E cooperare comporta non solo addestramento e tecnologia, ma viaggi, conoscenza reciproca, scambi di idee informali. Mille occasioni per parlarsi e dove gli americani, di ogni ruolo, livello, grado, avranno detto alle controparti israeliane una cosa semplice e chiara: no. Almeno non senza gli americani, e quindi no comunque. E che se fossero stati tirati dentro loro malgrado, se ne sarebbero ricordati.

Argomento su cui gli israeliani ascoltano, anche troppo, visto che Israele è il paese amico maggiormente sospettato di spionaggio verso gli Stati Uniti. Infatti Jonathan Pollard, protagonista e vittima di un colossale pasticcio israeliano, marcisce in una prigione americana dal 1987 e nessun presidente in uscita dalla Casa Bianca ha osato firmare la grazia, neanche un Bush, perché l’intelligence americana fa muro.

Camicia di forza
La domanda è se questa strategia di stretta cooperazione, anzi di avvinghiamento, sia stata pianificata da Washington o sia il risultato della logica delle cose. Probabilmente entrambi gli aspetti, ma con una forte prevalenza del primo. Perché il presidente Obama, sospettato di scarsa simpatia per Netanyahu, è da sempre circondato da molti collaboratori ebrei,(fin da quando era solo un senatore di Chicago), come Lee Rosenberg, divenuto presidente dell’Aipac nel 2009, o strateghi elettorali come Axelrod e Plouffe, diplomatici come Ross, Indyk, Kurtzer, Shapiro. E soprattutto due dei suoi tre capi di gabinetto, il primo, incontenibile Rahm Emanuel, ora sindaco di Chicago, e l’attuale, più silenzioso Jacob Lew.

Se Obama ha problemi a farsi capire da Netanyahu, la rete invisibile tra i due paesi regge benissimo e, anzi, lavora a tempo pieno. E ottiene significativi risultati, visto che per mesi Netanyahu aveva cercato invano di mettere insieme i voti necessari, anzi l’unanimità, dei ministri per far partire l’attacco. Il punto massimo era stato raggiunto in agosto, quando il presidente Shimon Peres, padre dell’atomica israeliana, aveva detto che agire da soli sarebbe stato catastrofico.

Anche il ministro della Difesa, Ehud Barak, ha pochi giorni fa lasciato cadere il suo sostegno apparentemente incrollabile all’attacco. Anzi, ha aspettato fin troppo a sganciarsi, visto che nessuno meglio di lui poteva sapere cosa dicevano gli americani. E Netanyahu l’ha accusato di tradimento, con qualche ragione. I due apparivano uniti, non bluffavano affatto, volevano davvero un attacco , ma sono stati circondati e sconfitti.

Il premier israeliano si è ritrovato molto solo, tanto da esibirsi in dichiarazioni spregiudicate. Ha recentemente dichiarato alla Knesset che nei suoi sette anni di governo Israele non aveva iniziato nessuna guerra non necessaria, anzi nessuna guerra del tutto. Frase ben costruita, per aggirare la guerra con Hezbollah del 2006 e l’operazione Piombo Fuso a Gaza del 2008.

Israele è un piccolo paese, seppure una potenza regionale. E gli aiuti americani sono indispensabili per la sua sopravvivenza. Per molti anni ha considerato l’alleanza di fatto con Washington come un dato scontato, arrivando anche a pensare di poter influire sulla politica interna americana, illusione piuttosto pericolosa.

Oggi Netanyahu deve prendere atto che l’alleanza informale è anche una camicia di forza. Quando vincerà le elezioni – e su questo non ci sono dubbi, al massimo vanno viste le percentuali – e se e quando Obama inizierà il secondo mandato – tradizionalmente delle “mani libere”, almeno per due anni – vedremo se la lobby contromano vorrà e potrà affrontare alcuni temi di fondo. Come gli insediamenti nel West Bank e un serio tentativo per arrivare a un trattato di pace con i palestinesi, due popoli due stati. Perché se Israele rimane uno, e occupante, gli Stati Uniti avranno un problema serio e le lobby interessate, proprio tutte, vita assai complicata.

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