IAI
Priorità strategiche

L’Italia nelle missioni internazionali

24 Set 2012 - Alessandro Marrone - Alessandro Marrone

La partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali è un elemento importante per il sistema-paese, che va valutato e gestito alla luce del nesso con gli interessi nazionali in gioco in un contesto europeo e mondiale in rapido cambiamento.

Rapida evoluzione
È utile capire quale siano i nessi di fondo tra la partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali e gli interessi nazionali italiani, nonché le implicazioni per la politica interna, la politica estera e di difesa, e le Forze armate. Un Documento IAI elaborato in occasione del convegno IAI-ISPI “Il ruolo dell’Italia nelle missioni internazionali” analizza questo aspetto importante per il sistema-paese, che si è evoluto nel corso degli ultimi due decenni.

Non molti sanno che l’Italia ha partecipato a oltre 130 missioni militari all’estero, di cui 30 tuttora in corso. Alcune hanno visto il dispiegamento nel teatro operativo di un contingente numeroso, ad esempio in Afghanistan, Libano, nei Balcani occidentali, e negli anni ’90 in Somalia. Altre missioni hanno coinvolto un numero ridotto di unità, spesso esperti, osservatori o addestratori, oppure hanno avuto una forte connotazione marittima come le operazioni anti-pirateria tra Mar Rosso e Oceano Indiano.

La stragrande maggioranza delle missioni internazionali cui l’Italia ha partecipato si è svolta in ambito Nato, Ue oppure Onu. Attualmente, sono circa 6.500 i militari italiani all’estero, per un costo annuale di 1,25 miliardi di euro di cui circa il 10% destinato alla cooperazione allo sviluppo e alla ricostruzione in loco.

Interessi nazionali
Perché l’Italia si è così impegnata su questo fronte? Negli ultimi venti anni, gli interessi nazionali tutelati o promossi dalla partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali possono essere ricompresi in tre grandi categorie: contrasto o prevenzione di minacce alla sicurezza nazionale, minacce anche di natura non-convenzionale o asimmetriche come il terrorismo e la pirateria internazionale; stabilizzazione militare e politica di aree geograficamente e/o funzionalmente importanti per gli interessi nazionali di sicurezza, economici, energetici e di contrasto all’immigrazione clandestina; contributo agli sforzi internazionali di assistenza umanitaria e/o a protezione dei diritti umani.

Quale interesse nazionale fosse legato alla partecipazione ad una determinata missione, e quanto esso sia stato in effetti tutelato dalla partecipazione italiana, è discutibile. Da un lato tale valutazione dipende dal successo di una missione, ad esempio nel contribuire alla stabilizzazione di un’area come i Balcani occidentali che negli anni ’90 era teatro di guerre civili e fonte di instabilità, traffici illeciti e immigrazione clandestina: se oggi questa regione appena oltre l’Adriatico non solo non è più in quella situazione, ma si è avviata verso l’integrazione in Europa e presenta importanti opportunità economiche per l’Italia, è anche grazie all’impegno militare italiano nelle relative missioni internazionali.

Nel valutare quanto la partecipazione italiana a una missione abbia tutelato un determinato interesse nazionale occorre anche considerare cosa sarebbe accaduto, verosimilmente, in caso l’Italia avesse dato forfait allo scoppiare di una crisi. Gli approvvigionamenti energetici fondamentali per l’economia nazionale – a differenza di altri grandi paesi europei l’Italia ha rinunciato volontariamente all’energia nucleare aumentando la propria dipendenza dall’estero – sarebbero oggi meno sicuri se l’Italia non avesse partecipato alle missioni internazionali in Medio Oriente e Nord Africa?

“Ce lo chiede….”
Il dibattito politico italiano spesso ha evitato di porsi simili domande, e di valutare in modo strategico tanto la presenza dell’Italia in un singolo teatro operativo quanto la partecipazione all’insieme delle missioni internazionali. Piuttosto, si è spesso è ricorso all’argomento “Ce lo chiede…”…qualcuno dall’estero, sia esso la Nato, l’Onu o l’Ue. Tale argomento ha un fondo di verità, nel senso che essere membri di un’alleanza come la Nato o di un’entità sempre più integrata come l’Unione comporta un certo vincolo di solidarietà con gli altri paesi, e conseguenze politiche importanti e negative per ogni passo indietro dell’Italia.

Ad esempio, è più difficile chiedere all’Ue di fornire risorse per il contrasto all’immigrazione clandestina nel Mediterraneo se ci si tira indietro dalle missioni dell’Unione che cercano di stabilizzare le regioni da cui provengono o transitano gli immigrati. Così come è più difficile avere voce in capitolo sui rapporti Nato-Russia, o in generale sulle priorità dell’Alleanza, se si abbandona in modo unilaterale l’Afghanistan che resta, almeno fino al 2014, la priorità per la Nato.

Tuttavia, tale rapporto tra l’Italia e le organizzazioni multilaterali di riferimento non può costituire un alibi, e non significa che l’Italia debba automaticamente essere presente in ogni missione decisa a Bruxelles. Piuttosto, si può e si deve valutare per ogni missione se, quanto, e come contribuire, in modo strategicamente collegato agli interessi nazionali in gioco e alle dinamiche europee e transatlantiche.

Inoltre, si può e si deve cercare di influenzare in modo propositivo l’avvio e la gestione delle missioni nelle regioni dove sono più forti gli interessi italiani. Come è stato fatto, in parte e tardivamente, quando di fronte ormai all’inevitabilità di un intervento militare in Libia si è almeno spinto per gestirlo tramite la Nato e non attraverso un comando militare à la carte.

Infine, si può e si deve far valere nelle organizzazioni multilaterali di riferimento ciò che l’Italia ha fatto e fa nelle missioni internazionali, per contribuire a promuovere o almeno a tutelare la posizione italiana nei vari dossier sui tavoli Ue, Nato ed Onu.

Forze armate e missioni
La partecipazione alle missioni internazionali ha richiesto uno sforzo significativo alle Forze armate italiane. Ma è stato anche un fattore importante di crescita e adattamento al nuovo contesto strategico, per essere in grado di svolgere i compiti – in parte nuovi – assegnati allo strumento militare nel mondo post-Guerra Fredda.

Crescita e adattamento in primo luogo culturale, con il passaggio da forze “in potenza”, necessarie per la Guerra Fredda, a forze “in essere” che in teatro cooperano con la componente civile – diplomatica, politica, sociale ed economica – nelle varie fasi della missione. Passaggio che ha imposto una maggiore professionalizzazione, una forte interoperabilità con gli alleati, una nuova dimensione internazionale per le attività militari, nonché ovviamente un adeguamento dei mezzi alla luce dei nuovi requisiti per poter operare in teatri distanti e diversi tra loro.

Le capacità militari italiane maturate anche attraverso vent’anni di missioni sono oggi ampiamente riconosciute all’estero, e costituiscono uno strumento importante non solo per la politica di difesa ma anche per la politica estera. Anche per questo motivo, la razionalizzazione dello strumento militare, e in particolare del bilancio della difesa, dovrebbe puntare a mantenere le capacità operative nell’ambito dei limiti di bilancio dati dalla congiuntura economica.

Oggi il fenomeno delle missioni internazionali sta cambiando insieme al contesto internazionale, e l’esperienza maturata dall’Italia deve servire per orientare, in futuro, scelte consapevoli ed efficaci.

.